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The Woman King

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VOTO: 6

Interessante vicenda storica narrata con qualche libertà di troppo

E’ il 1823 e il regno dell’Africa Occidentale del Dahomey è sotto il giogo dell’Impero Oyo. Questo significa versare ogni anno un pesante tributo ai dominatori, potenti anche grazie ai favori degli europei in termini di moschetti e denaro. Un vantaggio ottenuto grazie alla turpe ma lucrosa tratta degli schiavi. Il re Ghezo (John Boyega) è determinato a liberare il Dahomey, ben conscio della soverchiante forza dell’avversario. Dalla sua parte può però contare su una disciplinata e letale unità militare composta unicamente da donne: le Agojie. Guidate dalla carismatica veterana Nanisca (Viola Davis), queste guerriere di grande abilità e coraggio godono di uno status speciale all’interno del regno, riverite e rispettate. E’ al loro palazzo che viene condotta Nawi (Thuso Mbedu), ribelle adolescente che rifiuta di andare in sposa a mariti vecchi e dispotici. Il padre, stufo del suo comportamento, decide infatti di donarla al re per sbarazzarsene. L’addestramento è duro, sebbene avvenga sotto l’ala protettiva di Izogie (Lashana Lynch), esperta combattente che prende in simpatia la giovane. E’ un percorso difficile, che serve a Nawi per capire davvero chi è, per crescere, per scegliere cosa fare della propria vita: la carriera con le sue nuove sorelle o un futuro diverso, intravisto grazie all’incontro con il gentile esploratore Malik (Jordan Bolger), giunto con le navi portoghesi? E’ proprio attraverso gli occhi di Nawi, quindi, che si diventa spettatori di un tumultuoso periodo politico, mentre un conflitto di importanza storica è inevitabilmente alle porte.
Gina Prince-Bythewood è la regista di questo The Woman King che, nelle premesse, sarebbe un interessante affresco concentrato su vicende che noi occidentali ignoriamo in larga parte. Maria Bello, sceneggiatrice del film assieme a Dana Stevens, è venuta a conoscenza delle Agojie durante un suo viaggio in Africa, rimanendo colpita dalla loro figura e desiderando fortemente una pellicola che ne celebrasse le gesta. In effetti, è proprio a queste guerriere, di cui hanno scritto ammirati gli ufficiali francesi che le hanno viste all’opera, che si ispirano le Dora Milaje, ovvero le soldatesse scelte del fumettistico regno del Wakanda, già apparse nei film Marvel dedicati a “Black Panther”. Le Agojie, nelle spettacolari coreografie di battaglia, combattono proprio come le loro controparti a fumetti: dunque quelle vere hanno ispirato le fittizie Dora Milaje e quest’ultime, per ironia della sorte, hanno a loro volta ispirato la versione cinematografica delle Agojie. E, da un certo punto di vista, i problemi del film cominciano proprio da qui. In altre parole, nonostante lo scenario sia quello di fatti realmente accaduti, il racconto prende rapidamente una piega favolistica, finendo per idealizzare e romanzare le cose con troppe libertà. O, ancor più grave, facendo una vera e propria riscrittura, eliminando le sfaccettature più problematiche della storia, e forzandola così all’interno delle moderne istanze femministe e antipatriarcali. La finzione prende il sopravvento un po’ ovunque, dal momento che è vero, come si vede in alcune scene, che il re Ghezo ha tentato di sostituire il commercio degli schiavi con quello dell’olio di palma, ma il tentativo non ha avuto grande successo e il Dahomey ha continuato per decenni a mettere in catene i vicini sconfitti per venderli ai portoghesi, perfino con l’aiuto del più grande schiavista di tutti i tempi, il brasiliano Francisco Félix de Sousa! Naturalmente, soprattutto quando c’è Hollywood di mezzo, nessun film può pretendere di essere un documentario (e in fondo è giusto così), ma è evidente che la ribellione contro l’Impero Oyo, quella sì realmente avvenuta, come è anche vera l’importanza che in essa hanno avuto le Agojie, è stata trasformata dalle autrici in una sorta di manifesto femminista contro ogni forma di schiavitù e sopraffazione che di veritiero ha poco o nulla, incluse le ambizioni di libertà dell’immaginaria protagonista Nanisca. Nella pellicola viene riversata ogni colpa della tratta di esseri umani solo sugli uomini bianchi, le cui atroci responsabilità sono ampie e indubitabili, ma il Dahomey, come tanti altri stati africani, è stato uno dei grandi artefici ed entusiasti complici del commercio degli schiavi, terminato solo nel 1852 su insistenza degli inglesi (e neanche per lungo tempo). Sì, in effetti vediamo che l’impero Oyo collabora attivamente con gli europei e si arricchisce a dismisura, ma tra le sue fila ci vengono mostrati uomini che disprezzano le donne e che, oltretutto, sono in larga parte stupratori, quindi il problema morale viene pure lì risolto con una certa facilità.
Si tratta comunque di un’avventura ben girata e recitata: Viola Davis, già pluripremiata, incluso un Oscar per Barriere (2016), costituisce una garanzia, ma è molto buona anche la prestazione di Thuso Mbedu e in genere bisogna dire che tutto il cast funziona. Dunque, una buona idea se si desidera vedere un’avventura con un’ambientazione inusuale, attenzione però a prendere con le pinze quanto viene raccontato, in un’operazione di stravolgimento dei fatti al limite della propaganda. Se non altro, può essere un salutare incoraggiamento per andare a consultare la vera storia delle Agojie e di un continente affascinante come l’Africa.

Massimo Brigandì

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