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The White Lotus

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VOTO: 8

Neocolonialismi

Anche i ricchi piangono. E, soprattutto quando si piangono addosso discettando con pesantezza di problematiche sessuali, falsi progressismi e massimi sistemi in generale, possono suscitare una più che discreta dose di ilarità.
Parte da questo basico presupposto colmo d’ironia imbevuta di sana cattiveria la riuscitissima mini-serie televisiva The White Lotus, creata e diretta da Mike White, che i più ricorderanno, in veste attoriale, come l’amico al quale Jack Black “ruba” l’identità nel cult School of Rock (2003) di Richard Linklater. Attenzione però: la sceneggiatura del film appena citato è opera proprio di Mike White, il quale si conferma, anche in quest’occasione, penna assolutamente arguta nell’elaborazione di The White Lotus.
Hawaii. Un gruppo di facoltosi turisti fa il suo arrivo in un lussuoso resort per una vacanza da sogno, accolta con tutti gli onori dal personale in servizio. Tra cui spicca il solerte direttore Ormond. Il breve prologo, in flash forward narrativo, ci racconta però della disavventura di uno dei personaggi maschili, la quale partner sembra rientrare dalla suddetta vacanza sigillata in una bara di alluminio, trasportata nella stiva della nave. E tutti sanno come i sogni possono, con relativa facilità, trasformarsi in incubi, laddove le condizioni possono non essere propriamente ideali. E The White Lotus – così intitolato dal nome del resort ma anche dalla funzione allucinogena del fiore in questione. Chi vedrà la serie comprenderà alla perfezione… – prende immediatamente la strada di un autentico gioiellino carico di humour nero, ferocemente critico nei confronti di una classe sociale ormai definitivamente perduta nella passiva contemplazione della propria condizione di (molto presunta) superiorità. Uno smarrimento esistenziale privo di senso che si esplicita nel dualismo – talvolta di palese contrasto tra i personaggi, altre volte in modi più “sotterranei” – tra la classe abbiente e quella deputata ad assecondarne i bisogni, formata perlopiù da gente del posto. Una sorta di occupazione di massa di un territorio “straniero” il cui significato squisitamente politico emergerà con nitore nel corso dei sei episodi che vanno a comporre un mosaico assai ben strutturato, nel quale i colpi di scena si susseguono senza sosta a delineare la personalità di ogni componente del gruppo. E non solamente tra i turisti. Una sorta di gioco di società reso splendidamente da un cast dove spiccano nomi quali Connie Britton, Alexandra Daddario, Jennifer Coolidge, Steve Zahn ma soprattutto un perfetto Murray Bartlett nell’indimenticabile – vedere per credere – ruolo di Ormond. Impagabile direttore narrativo di un’orchestra a dir poco volutamente stonata. Il tutto ulteriormente sottolineato poi da una colonna sonora ossessiva composta da percussioni e note dissonanti, parente stretta di quella – griffata Jon Brion – magnificamente utilizzata da Paul Thomas Anderson in Ubriaco d’amore (2002).
Durante la visione di The White Lotus si ride molto, ma sempre a denti un po’ stretti. Perché permane la consapevolezza della gigantesca metafora sociale – abusata quanto si vuole ma sempre molto efficace, se trattata con intelligenza – di un fenomeno di prevaricazione che parte da tempi remoti e prosegue inarrestabili fino ai nostri giorni. Con la certezza che continuerà in eterno poiché così pretende la natura umana.
Ancora una volta, dunque, massima lode alla HBO (il distaccamento televisivo della Warner Bros.) produttrice di una delle migliori serie viste in questa anomala stagione segnata dalla pandemia dove la televisione ha avuto un ruolo preponderante nelle vite di ognuno. Anche nella scelta di mettere in cantiere una seconda stagione, trasformando così un prodotto in origine autoconclusivo in una serie antologica, con cast differente. Ancora mano libera a Mike White, novello Paul Bartel, ed il risultato sarà assicurato. Del resto, come si affermava poc’anzi, una certa tipologia di turismo aggressivo/regressivo non finirà mai…

Daniele De Angelis

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