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The Verdict in the Case of K.

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VOTO: 7.5

Quando un padre è da solo prova a fare tutto

Il peso di una colpa non nostra ma che ci viene addossata dalla comunità per un mancato rispetto delle convenzioni da parte nostra è schiacciante e può distruggerci. Ciò avviene soprattutto in quelle società ancora molto legate a tradizioni antiche e spesso patriarcali, ancora più quando ciò avviene in una comunità di immigrati e quindi si verifica anche una frizione con le leggi e le convenzioni del paese ospitante. Sembra essere questo il fulcro del cortometraggio The Verdict in the Case of K. (titolo originale Das urteil im fall K.) del giovane regista turco Özgür Anil in concorso al 32° Trieste Film Festival. Ambientato all’interno della comunità turca di Vienna, il racconto segue le vicende di una vittima di stupro e della sua famiglia a partire dalla sentenza inflitta agli aggressori. Con uno stile essenziale ed attento, misurato e rigoroso, Antil non filma un caso giudiziario ma un kammerspiel, un dramma dei sentimenti in interni, nel quale a risaltare sono l’atmosfera e lo stato d’animo dei protagonisti. Lo stupro è un reato particolarmente odioso, che spesso pesa più sulle vittime e sulle loro famiglie che sui carnefici e che, inspiegabilmente, comporta ancora uno stigma sociale nei confronti proprio delle vittime. Come lo stesso regista mostra in una scena. E dunque vediamo come questa famiglia reagisce, o quantomeno tenta di reagire, al dolore ed alla rabbia. I sentimenti mostrati sono forti, le emozioni dirompenti, ma tutto viene tenuto sotto pelle, mai viene mostrato in maniera sguaiata e patetica. Seguendo in maniera coerente la sua idea di base, il regista non si concentra solo sulla vittima, che anzi appare quasi sullo sfondo, ma sulle persone che la circondano, il padre, il fratello, la comunità di amici e colleghi. Tutti con la loro opinione ed il loro modo di relazionarsi con l’atterrito nucleo famigliare. Benchè all’inizio la figura destinata al destino più tragico sembri essere il figlio Ekrem, interpretato da un intenso Cem Deniz Tato che ci pare avviato ad un brillante futuro attoriale, il quale appare più degli altri patire la pressione della comunità per adempiere alla legge dell’onore anziché alla legge dello Stato, a crescere e risultare come la figura più tragica è il padre Mustafa, un altrettanto intenso Nazmi Kirik. Unico genitore, cerca disperatamente di essere per i figli un sostegno ed una guida, di far loro superare la tragedia e di tenerli sulla retta via. Non un padre/patriarca, come forse vorrebbe la convenzione sociale della comunità; ma semplicemente un padre, che ha come unico desiderio proteggere e vedere felici i propri figli. E quindi tanto più è tragico ciò che viene solo sussurrato dal regista verso il finale. Il senso di impotenza, il dolore ed anche la rabbia, diventano disperazione, diventano un carico troppo pesante per Mustafa che pare cedere e cedendo, forse, riesce però a salvare il figlio Ekrem.
Özgür Nali ci narra una storia dura che non condanna e non assolve, ma che chiede solo di essere capita, dovremmo sforzarci tutti di farlo.

Luca Bovio

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