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The Train of Death

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VOTO: 7,5

Il treno dei desideri all’incontrario in Indonesia va

Non tanto da resuscitare l’antica usanza dell’”horror day”, a quanto pare, ma il cinema horror di provenienza orientale si è fatto in media valere, al Far East Film Festival 2024. E il sud-est asiatico non poteva certo mancare all’appello, in quanto a idee e ad atmosfere. Tant’è che tra i lavori di maggior impatto si è imposto all’attenzione The Train of Death dell’indonesiano Rizal Mantovani.

Sempre in tema di resurrezioni, Rizal Mantovani era già noto agli appassionati per essere colui che all’inizio degli anni Duemila ha saputo “resuscitare” il cinema di genere – e in particolare l’horror – in Indonesia. Suo l’incipit della fortunata serie Jelangkung, suoi la trilogia e il remake di Kuntilanak. Ma l’impressione è che con The Train of Death si sia puntato su suggestioni ancora più forti.
Se infatti dalla Thailandia al Vietnam alla Malesia e alla stessa Thailandia ci si è ormai abituati a quegli horror “rurali”, “boschivi”, in cui forze malefiche, demoni e spiriti della Tradizione si scatenano di fronte alla presenza umana nel loro ambiente, la foresta, decisamente più raro è vedere tali entità… prendere il treno!
Senza naturalmente pagare il biglietto. L’accorto e attualissimo presupposto ecologico di The Train of Death è infatti che gli speculatori di turno abbiano “sfigurato” una foresta sacra per permettere il passaggio di una ferrovia che colleghi il più vicino centro abitato a un resort ultramoderno di recente costruzione. Naturalmente la pagheranno cara. Tutti. A partire dagli operai impegnati a lavorare sui binari, fino agli sfortunati, ignari passeggeri e agli artefici stessi di tale scempio, finanziatori compresi.

L’idea brillante del film è appunto abbinare le terrificanti apparizioni spiritiche alla mattanza, dalle coloriture decisamente “pulp”, che avrà luogo sul convoglio ferroviario proprio all’inaugurazione. Originale in sé, la sceneggiatura mostra semmai interessanti “cortocircuiti creativi” che possono rimandare al cinema coreano. Dalle orde di zombi viste all’opera in Train to Busan di Yeon Sang-ho ai conflitti di classe messi sapientemente in scena da Bong Joon-ho nel memorabile Snowpiercer, la Corea del sud ci ha abituato da tempo a una feroce lotta per la sopravvivenza, da affrontare scompartimento dopo scompartimento, vagone dopo vagone. Riprendendo e rimodellando in chiave soprannaturale un simile topos, Rizal Mantovani ci ha regalato un sanguigno intrattenimento in cui finiscono per convivere godibilissime soluzioni splatter e una morale ecologica tutt’altro che peregrina. Impulsi tra loro coerenti, che prendono forma mirabilmente e in modo orripilante nelle metamorfosi finali, affini per certi versi a quelle del Mito greco o della Divina Commedia, con uomini e donne che hanno osato invadere uno spazio a loro non consentito trasformati in inquietanti arbusti.

Stefano Coccia

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