Canto della pastora
Vijaydan Detha fu un noto poeta e studioso della lettura e del folklore in lingua rajasthana. Scrisse più di 800 opere in questa lingua contribuendo a conservare e diffondere la cultura delle popolazioni che la parlano. Il suo lavoro è una delle basi dalle quali è partito il regista indiano Pushpendra Singh per realizzare questo suo The Shepherdess and the Seven Songs, presentato in concorso lungometraggi al 30° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.
Attraverso l’opera di Detha e la storia della mistica indiana Lal Ded il regista è penetrato nella vita e nella cultura dei Bakarwal, popolo che vive sulla catena montuosa dell’Himalaya e che parla una sua lingua, il gojri, che è anche la lingua del film. Confermando di essere un regista colto e raffinato, Singh adopera sette canzoni popolari dei Bakarwal per scandire la storia della giovane Laila, che sogna la libertà tra le montagne lontana dalle meschinità e dalle tensioni. Per le musiche che le accompagnano dichiara di aver preso ispirazione dal concetto di migrazione e di assenza di confini e dunque ecco che abbiamo musiche provenienti da diverse parti dell’Asia. La grammatica del film è quella del cinema classico, che viene arricchita da un gusto quasi pittorico per la messa in scena. Difatti la camera è spesso immobile, le inquadrature assumono la forma dei tableaux vivants. Quando si muove, però, è sempre elegante ed aggraziata. In quello che è indubbiamente un film di finzione, poi, alcune inquadrature e sequenze richiamano la forma documentario. Il che aumenta l’impressione di trovarsi davanti ad un’opera stratificata, che possiede molteplici piani di lettura. Iil termine “lettura” è quantomai adatto. Difatti le canzoni funzionano anche come i capitoli di un libro e i tableaux vivants dei quali il film si compone come immagini a corredo ed arrichimento delle parole. Possiamo trovare dunque nella pellicola il recupero di una forma testuale più antica del cinema, con parole ed immagini che si influenzano a vicenda. Un lavoro simile da quello compiuto da Stanley Kubrick con il suo Barry Lyndon. Ma con molta più partecipazione e tenerezza verso la materia trattata rispetto al regista americano, che si era dimostrato più cinico e distaccato.
Attraverso un’opera di recupero e di studio di materiale folklorico che dimostra di avere profondamente capito ed assimilato, Singh produce un’opera poetica e complessa, dotata di grande delicatezza e levità senza tuttavia essere mai superficiale ma dimostrando altresì profondità e rispetto per l’argomento trattato. La descrizione di un carattere forte e ribelle non passa per momenti forti di rottura ma attraverso l’accumulo di esperienze che portano ad una nuova comprensione di sé e del mondo. In questo si rivede l’insegnamento buddhista e l’esempio della figura di Lal Ded. Un’opera molto diversa da quelle alle quali siamo abituati in Occidente ma che non mancherà di affascinare e rapire lo spettatore.
Luca Bovio