Ulan Bator by Night (and Day)
Pochi ma buoni. A distanza di 12 anni dal già apprezzabile Operation Tatar di Baatar Bat-Ulzii, un film mongolo fa nuovamente capolino a Udine. E al pari di quanto constatato in quell’occasione, anche The Sales Girl di Janchivdorj Sengedorj non è opera cinematografica in cui si voglia riproporre un immaginario composto di steppe infinite, yurte e guerrieri a cavallo, bensì l’esplorazione ritenuta forse meno appetibile in Occidente di una realtà urbana in parte globalizzata, come quella della capitale Ulan Bator. Una realtà senz’altro non facile. A ricordarcelo ci hanno pensato pure, di sguincio, documentari incentrati invece sul fascino dei grandi spazi aperti, vedi La macchia mongolica il cui autore Piergiorgio Casotti (finito lì assieme a Massimo Zamboni ex CCCP e CSI) in certe annotazioni di viaggio aveva voluto sottolineare proprio il disagio provato passando fugacemente per una metropoli a tratti soffocante, quale è la moderna Ulan Bator.
Grande sorpresa perciò, da parte nostra, nel constatare come tali ambienti abbiano comunque ispirato qualcosa di cinematograficamente così vivo, originale, quasi impalpabile e al contempo animato da una serpeggiante, assai concreta ironia, tant’è che The Sales Girl risulta ad ora il film più esaltante in concorso al 25° Far East Film Festival.
Janchivdorj Sengedorj, classe ’76, è regista che pare particolarmente interessato alla narrazione dei contrasti, del confronto generazionale, dell’universo giovanile in una Mongolia ritratta al bivio tra spinte divergenti. Tutto ciò espresso però attraverso una vena immaginifica davvero notevole e con la dovuta leggerezza. Quasi fosse un rapporto iniziatico dai contorni eterei, stranianti, il cineasta fa incontrare la giovanissima Saruul (una raggiante Bayartsetseg Bayangerel, ospitata peraltro dal festival a Udine) e la più matura Katya (Enktuul Oidovjamets), proprietaria del sexy shop presso il quale la prima verrà assunta temporaneamente quale commessa. Curiosamente, è proprio dalla navigata e a tratti misteriosa Katya che arriva una lezione di vita, un inno alla libertà, cui si deve la progressiva emancipazione della ragazza da pregiudizi, condizionamenti e pressoché inevitabili pressioni famigliari. Sebbene il rapporto tra le due finisca poi per delinearsi quale completamento reciproco.
Coming of age straniante e naïf, The Sales Girl ha in più il merito di muoversi tra Modernità e Tradizione senza criminalizzare alcunché, senza voler pontificare in una direzione o nell’altra, limitandosi semmai a rileggere con sorniona ironia i mutamenti in atto nella società mongola; altrettanto encomiabile poi è la rappresentazione non soltanto della sessualità, ma dello stesso rapporto tra i sessi, allorché in Occidente un femminismo oltranzista e certi diktat ideologici tendono ormai ad amplificare barriere, sospetti, incomunicabilità; mentre qui, pur ponendo in primo piano le parabole di due atipiche eroine, l’autore si rapporta al tema privilegiando uno spirito libertario e una salvifica impronta umoristica.
Apprezzabilissimo lo stile, nota di merito poi per la così brillante colonna sonora, con tanto di movimenti di macchina atti a scoprire (pratica poco usata ma di sicuro effetto, vedi l’islandese La donna elettrica) in modo altresì ludico la presenza dei musicisti in scena; laddove, a ridosso dell’estrema varietà dei brani presenti nella soundtrack, un principio di commozione si è generato in noi riascoltando in sottofondo, per tutta la divertente scena ambientata nel ristorante russo, un vecchio brano dei Kino, band in auge al tramonto dell’era sovietica (periodo le cui tracce sono pure presenti nel film) e cementata dal talento del leggendario, compianto Viktor Tsoi.
Stefano Coccia