L’EPOca in giallo
Di fronte ad un soggetto come quello di The Program, il primo interrogativo da sciogliere per la produzione – immaginiamo – avrà riguardato il “modus operandi” cinematografico da scegliere per mettere in scena l’ascesa e la caduta di un personaggio universalmente conosciuto di nome Lance Armstrong. In che modo, dunque, restituire agli spettatori l’urgenza puramente etica della vicenda sportiva e umana di un mito dello sport i cui successi sono risultati, per sua stessa confessione, inficiati sin dalle fondamenta? La risposta fornita dal veterano Stephen Frears alla regia e dallo sceneggiatore John Hodge – abituale collaboratore di Danny Boyle dagli inizi della carriera e oltre: ricordate il cult Trainspotting (1996)? – è stata di una semplicità quasi disarmante: attenersi ai fatti.
Ispirato dal libro Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong, scritto dal giornalista sportivo David Walsh – il cui personaggio peraltro compare anche nel film – The Program ha le cadenze di un instant-movie televisivo in versione extra lusso, dove il senso d’attesa viene generato dal come e il quando il castello di omertà costruito dal clan di Armstrong sarà destinato a crollare. Il rapporto diretto dell’ex campione texano (credibilmente interpretato dall’ottimo Ben Foster) con il doping è infatti reso esplicito sin dalle primissime battute del film, con i famigerati farmaci – tra cui la ben nota eritropoietina, al secolo E.P.O. – facilmente acquistata in Svizzera, paese in cui, nel 1993, la vendita era ancora perfettamente legale. La predisposizione a barare in Lance Armstrong, ci suggeriscono Frears e soci, era dunque congenita; scaturita da un ego troppo grande per poter anche solo pensare di arrivare secondo. Decisivo e illuminante, come cronaca (nera e vera) ha insegnato, l’incontro con il medico italiano Michele Ferrari, purtroppo come sovente accade nel cinema internazionale quando si parla del nostro paese qui ridotto al rango di semi macchietta interpretata da un irriconoscibile Guillaume Canet (un attore nostrano no, eh?). Ferrari mette subito Armstrong di fronte alla brutale verità: con la sua costituzione fisica lui è destinato a non poter vincere la grande corsa a tappe per eccellenza, ovvero il Tour de France, a meno di far ricorso ad altre scorciatoie. Opzione che, puntualmente, viene scelta.
In questa prima parte The Program crea un senso di smarrimento in chi lo guarda, affastellando senza sosta situazioni e personaggi quasi a voler precedere lo stesso Armstrong al traguardo delle prime vittorie di tappa in terra francese, avvenute in pratica sin dalle stagioni d’esordio. L’argomento doping viene trattato come fosse uno scontato aspetto collaterale della competizione, un normale pedaggio pagato per raggiungere vittorie e fama. Il “naturalismo” di certi contesti pseudo-sportivi illustrati da Frears è sì impietoso ma efficacemente sussurrato, mai urlato di sdegno. Ricostruendo con assoluta precisione i fatti alla stregua di un reportage giornalistico. The Program cambia registro quando mette il personaggio Armstrong di fronte al cancro ai testicoli che lo colpì nel 1996 e dal quale guarì tornando miracolosamente (?) molto più forte di prima. La doppiezza di Armstrong viene interiorizzata e svelata in tutta la devastazione dell’inganno: eroe popolare in grado di dare speranza ad ogni malato del mondo e nel contempo macchina da vittorie – ben sette Tour de France vinti consecutivamente, poi revocati – costruita in laboratorio. E nel crescendo verso l’inevitabile scoperta della verità oltre il cumulo di menzogne di un’organizzazione funzionante in modi non dissimili a quelli mafiosi – c’è anche spazio per le minacce al ciclista italiano Simeoni, preso di mira da Armstrong in corsa perché reo di aver testimoniato nel processo contro Ferrari e le sue pratiche proibite – si comprende subito come l’anello debole della catena sia il luogotenente Floyd Landis (vincitore di un Tour ad Armstrong già ritirato, poi revocato per conclamata positività al doping), l’uomo destinato a neutralizzare l’ostinato impianto difensivo del texano. Fino alla confessione televisiva – e non poteva essere altrimenti, per un personaggio di tale portata globale – nel corso di una puntata dello show di Oprah Winfrey il 17 gennaio 2013.
The Program, insomma, denuda abilmente il Re usando le stesse mani che ne hanno costruito la mitologia; e soprattutto insinuando negli spettatori il dubbio su quante verità possano esistere dietro l’apparenza imposta dalle ferree regole dello show business. Un mondo a parte dove il denaro costituisce l’unica “stella cometa”, in grado di creare e disfare a piacimento. Obiettivo dimostrativo, quest’ultimo, pienamente centrato dall’opera diretta da Stephen Frears. Anche se alla fine, ad essere sacrificato sull’altare della cosiddetta “necessità del messaggio”, probabilmente è proprio il cinema in senso lato, quello che ammalia attraverso le storie e fa vibrare sguardi e cuore per merito della potenza delle immagini. Ma allora The Program sarebbe stato un altro film. E Lance Armstrong un personaggio di celluloide figlio di una visione altrui e non una parabola esemplare scritta a grandi lettere sul lato negativo della Storia sportiva.
Daniele De Angelis