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The Post

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VOTO: 7.5

Il tempo delle decisioni

The Post è un film “giusto e necessario”, tanto per usare due aggettivi inflazionati ma ancora in grado di rendere l’idea: un tema attualissimo – soprattutto in tempi di troppe notizie che ondeggiano nel limbo tra vero e falso come quelli che viviamo oggi – che tratta di argomenti pregnanti quali la libertà e la conseguente verità di stampa; oppure il mettere precocemente, agli albori degli anni settanta, la donna al centro del Potere con annesse responsabilità che il ruolo comporta. Un’opera, insomma, straordinariamente ricca di contenuto e differenti chiavi di lettura, quasi una visione obbligata per tutti coloro che tuttora credono in determinati valori e, a maggior ragione, per tutti gli altri, quelli da strappare all’apatia del “tanto le cose vanno in un certo modo e non ci si può fare nulla”. Il tutto servito dall’impeccabile classicismo formale di un regista del calibro di Steven Spielberg e da un cast di assoluta eccellenza nel quale spiccano le presenze di Meryl Streep e Tom Hanks, con la prima a scandire, attraverso il suo personaggio, tempi ed emozioni del racconto.
Come spesso gli accade Spielberg sposta le lancette temporali dell’ambientazione dei propri lavori in modo da rendere universale ciò che si racconta. Siamo nel 1971. Il Washington Post, quotidiano della capitale che naviga in cattive acque finanziarie, riceve in seconda battuta una riservatissima serie di rapporti (detti Pentagon Papers) stilati dal Segretario della Difesa Robert McNamara sul reale andamento del conflitto in Vietnam, trafugato da una “gola profonda” interna nauseata dalla discrasia tra l’effettiva realtà e le versioni ufficiali. Inizia così una battaglia sia legale che morale sulla scelta di pubblicare documenti che il governo in carica – la presidenza dell’epoca era di matrice repubblicano, con Richard Nixon in qualità di Commander in Chief; tuttavia il rapporto chiamava in causa altre precedenti gestioni – ritiene coperti dalla massima segretezza e che, a loro dire, recherebbero un danno irreparabile alle truppe statunitensi all’epoca ancora dislocate nel sud-est asiatico. Tra i protagonisti della difficile decisione la proprietaria del Washington Post Katharine Graham (Streep) e il direttore del giornale Ben Bradlee (Hanks), legati da un ottimo e cordiale rapporto ma, logicamente, su sponde almeno in apparenza opposte, separate dall’esigenza di salvaguardare il valore di un bene e l’etica professionale di svolgere sempre e comunque un irreprensibile lavoro giornalistico.
Proprio la volontà di attualizzare quello che a tutti gli effetti sarebbe un film oramai storico, penalizza un poco, almeno nella prima parte, quel senso di pathos che avrebbe dovuto pervadere il lungometraggio per l’intera sua durata. Risulta abbastanza assente, per essere maggiormente specifici, quell’atmosfera di accerchiamento che caratterizzava il cinema di quegli anni, che pure Spielberg, anche per motivi anagrafici, dovrebbe conoscere a menadito. La lotta del singolo – in questo caso la collettività di un giornale – contro un Potere assoluto come quello politico non produce la scintilla del coinvolgimento tipica delle opere-inchiesta tese a smascherare scandali abilmente dissimulati. Tra i due sceneggiatori di The Post – l’altra è Liz Hannah – troviamo non a caso anche Josh Singer, premio Oscar per lo script di un’opera concettualmente affine (1) a The Post come Il caso Spotlight (2015). Se però quest’ultima opera riusciva perfettamente nell’intento di mostrare la disparità delle forze in campo, suscitando quell’empatia nel pubblico verso vittime e giornalisti fautori dell’indagine sulla pedofilia in ambito ecclesiastico a Boston, in The Post ci si concentra su altro, a detrimento del coinvolgimento emotivo del pubblico sino almeno alla parte finale, dove Spielberg sciorina il meglio della sua arte registica scavando sapientemente all’interno delle dinamiche che dovrebbero circoscrivere e separare di netto l’etica professionale e la cosiddetta Ragion di Stato, troppo spesso usata a fini strumentali.
Conviene allora prendere The Post “semplicemente” come indimenticabile inno al coraggio femminile, quello di una donna finita quasi per caso – come ben racconta il film riassumendo la realtà storica dei fatti – a decidere, indirettamente ma con successo, i destini di una guerra, fornendo all’opinione pubblica gli strumenti necessari a formarsi un’idea su quello che davvero stava accadendo in una parte remota del mondo, incidendo così la prima crepa sul muro della menzogna. Una sorta di utopia realizzata che proprio non poteva sfuggire all’attenzione di quell’inesauribile materializzatore di sogni rispondente al nome di Steven Spielberg.

Daniele De Angelis

Nota
(1) Altro curioso legame tra The Post e Il caso Spotlight, entrambe opere ispirate a fatti accaduti, è la presenza in quest’ultimo film di Ben Bradlee Jr. (interpretato dal John Slattery della serie tv Mad Men) come giornalista del Boston Globe, nella realtà figlio del direttore impersonato da Tom Hanks in The Post. Sebbene nelle rispettive opere i due vengano descritti con caratteristiche molto differenti: intraprendente il padre, assai più prudente il figlio a proposito di questioni morali sulla libertà di stampa.

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