A occhi aperti
«L’occhio guarda, per questo è fondamentale.
E’ l’unico che può accorgersi della bellezza.
La visione può essere simmetrica lineare o parallela in perfetto
affiancamento con l’orizzonte.
Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa,
perché la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle
non codificate dal senso comune.
E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale.
[…].
Il problema è avere occhi e non saper vedere,
non guardare le cose che accadono,
nemmeno l’ordito minimo della realtà.
Occhi chiusi.
Occhi che non vedono più.
Che non sono più curiosi.
Che non si aspettano che accada più niente.
Forse perché non credono che la bellezza esista.
[…]»
Abbiamo scelto di iniziare con queste parole di Pasolini perché la macchina da presa diretta da Joshua Oppenheimer ha gli occhi per vedere, nel caso di The Look of Silence, la non bellezza dell’uomo che ha torturato (espressa all’ennesima potenza in The Act of Killing) e la bellezza dell’uomo che si pone di fronte al “carnefice”, pietrificandoci.
Spesso si dice che le storie possono mettere in secondo piano il film in quanto “macchina cinema” ed è questo uno dei casi, non perché tecnicamente il documentario non sia realizzato bene (anzi!), ma inevitabilmente ciò che racconta balza all’occhio più di qualsiasi altra cosa. Il regista texano torna sul luogo del misfatto perché forse è troppo difficile lasciare una storia come quella delle torture perpetrate sui comunisti nel 1965, lui non riesce a fermarsi a The Act of Killing, vuole andare avanti “offrendoci” il contraltare emotivo.
Unico documentario in Concorso alla 71^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria, The Look of Silence ci porta a incontrare i giustizieri dei comunisti attraverso lo sguardo di un uomo che ha vissuto nell’animo le conseguenze di quell’atroce realtà. Adi Rukum, è il fratello di Ramli (ucciso presso lo Snake River dopo essere stato sventrato, percosso ed evirato), ha deciso di rompere il silenzio omertoso che regna sul massacro degli Anni ’60, un genocidio che sembra così “normale” tanto che gli stessi esecutori “regnano” tuttora sull’Indonesia.
Per quanto la macchina da presa sia silenziosa, la forte idea registica si avverte eccome, forse sarà venuta spontaneamente, proprio dall’osservazione della realtà e dall’incontro tra Oppenheimer e Adi, ma è molto particolare (guardando proprio dal punto di vista drammaturgico) questa sovrapposizione tra lo sguardo della vittima e il lavoro che fa. Adi effettua, infatti, delle visite oftalmiche a domicilio ed è con questa scusa che entra in contatto con coloro che hanno ucciso il fratello; quando lo spettatore realizza questa dinamica resta agghiacciato, la linea di confine si fa sottilissima e l’empatia scatta (per quanto non potremo mai capire fino in fondo cosa si provi, da entrambi i punti di vista). Lo ammettiamo: ci si chiede come Adi riesca anche solo a star di fronte a questi uomini, dimostrando anche un certo controllo, ma se né lui né Oppenheimer puntano il dito, non vogliamo farlo neanche noi. Certamente l’uomo, così coinvolto per l’atroce assassinio del fratello si pone davanti a questi individui con molte domande, gliele rilancia forse con la speranza che almeno prendano consapevolezza di ciò che hanno compiuto e ciò che lascia spesso interdetti (lo avevamo già provato con The Act of Killing) è il modo che queste persone hanno di raccontare ciò che hanno fatto, dalla maggior parte di loro non trapela alcun rimorso. Incontro dopo incontro avviene anche che qualche carnefice sia deceduto e allora, forse, l’incontro si verifica tra due vittime: Adi e i famigliari dell’uomo assassino, ignari di tutto (o almeno così dicono coperti di imbarazzo).
Adottando una prospettiva più intima rispetto a The Act of Killing (dove c’era anche una dimensione metacinematografica – per il film nel film gli assassini interpretavano, per loro scelta, gli assassinati), The Look of Silence, oltre a schiaffeggiare, tocca il cuore, merito anche dei momenti di tenerezza tra Adi e la madre e dell’umanità che comunica suo padre, ora attraverso il silenzio, ora coi canti. Presentandoci questi due genitori, il regista ci pone di fronte al sottile filo: memoria-rimozione (nella donna c’è memoria, il marito, infermo e cieco, ha dimenticato tutto ciò che è accaduto al figlio).
Tornano le interviste ai capi del genocidio (fortissimo lo sguardo di Adi mentre vede l’intervista realizzata nel 2003 dallo stesso regista ai fautori dell’omicidio del fratello), si susseguono le loro “credenze” come quella secondo cui bere il sangue di chi avevano appena ucciso potesse esimerli dalla pazzia e tutto questo ci fa venire solo la pelle d’oca. Va detto, non è facile reggere il ritmo, forse un po’ si avverte, ma crediamo che la motivazione sia soprattutto per le forti sensazioni che si provano e ci permettiamo di dire che è meglio prendersi del tempo per metabolizzarlo – parlarne a caldo è troppo difficile.
Oppenheimer e Adi rendono giustizia all’idea e alla missione del documentario, facendoci aprire gli occhi sul reale, su ciò che è stato, su ciò che è!
Maria Lucia Tangorra