Natura morta
Torna Lars von Trier a seminare panico sulla Croisette, riabilitato ufficialmente dopo l’interdizione dal festival. E torna con un nuovo Antichrist che si identifica nel serial killer Jack, che porta il volto di Matt Dillon, con il suo aspetto distinto, piacente di chi ha rappresentato al cinema un giovane ribelle negli anni Ottanta. The House That Jack Built (per l’uscita italiana il titolo sarà La casa di Jack) racconta cinque degli omicidi di questo assassino seriale, cinque variazioni sul tema. Spesso i film del regista danese sono divisi in capitoli, segmenti, ma il numero cinque ci porta direttamente a una delle sue opere, a torto, meno note, Le cinque variazioni, una sorta di pamphlet metacinematografico sul farsi del cinema. Von Trier dimostrava di poter rifare cinque film dallo stesso soggetto, ogni volta in forma diversa, con regole diverse. Tornando al film contemporaneo presentato Fuori Concorso a Cannes 2018, il parallelismo è evidente, ed esplicito in molti momenti del film: l’omicidio cruento può essere un atto creativo, un’opera d’arte – non lo è del resto quella composizione macabra che realizza Hannibal Lecter con i cadaveri dei suoi carcerieri una volta evaso? –, e l’opera d’arte può essere un omicidio. Come Hannibal Lecter, anche Jack compone artisticamente i suoi cadaveri come fossero pupazzi. Ma in fondo devono essere pupazzi fuori dalla finzione, nel trucco cinematografico. E la scena fa il paio con dei momenti di tableau vivant soprattutto alla fine del film, dove si avvicina alla parte infernale resa alla William Blake. Jack è evidentemente una proiezione dello stesso Lars von Trier.
Per un regista come von Trier accusato, e non del tutto a torto, di essere un furbastro, di avere un approccio disonesto con il proprio pubblico, di essersi inventato delle regole di cinema spacciate come dogmatiche e poi subito contraddette, questo ultimo film assume un ruolo catartico nel porre una questione che si è sempre posta nell’arte, ovvero il suo essere o meno svincolata dalla morale. Lo squartatore Jack pone spesso in contrasto la figura dell’ingegnere con quella dell’architetto. Il primo deve costruire ponti che reggano, palazzi che siano statici, non gli viene chiesto nulla di più. Il secondo deve aggiungere l’aspetto artistico, decorativo. Lo scarto tra le due funzioni, capacità tecnica e creatività, è quello che chiamiamo arte. Basta tutto ciò? L’arte deve rimanere neutrale rispetto a questioni morali? Tra gli architetti, von Trier cita nel film proprio Albert Speer, artefice dell’architettura monumentale nazista (avrebbe dovuto fare riferimento anche a Leni Riefenstahl), che già era uno degli elementi incriminati della conferenza stampa che gli costò l’espulsione da Cannes: “No, io voglio solo parlare dell’arte. Albert Speer mi piaceva. Era forse uno dei migliori figli di Dio… Ha avuto del talento che poteva essere utilizzato… Ok, sono nazista“. Nel film von Trier insiste molto sulle immagini in negativo, una “diversa qualità”, oscura, che si può dare all’immagine. Una fotografia può essere bellissima e se virata in negativo può esserlo altrettanto, in una forna estetica diversa. The House That Jack Built contiene tanto immagini di arte tanto quelle dei campi di sterminio nazisti e l’albero di Goethe è stato inglobato a Buchenwald, i nazisti l’hanno rispettato e non l’hanno abbattuto. Cos’è del resto l’Anticristo se non l’opposizione a Cristo cui si aggiunge solo un prefisso? E ancora tra gli elementi del crimine nel film appaiono anche spezzoni dalla filmografia del regista danese, che fanno pensare a quelli di Kim Ki-duk in Arirang, altro esempio di cinema della depressione e dell’analisi, ovviamente con diverse impostazioni.
Nel percorrere la carriera criminale di Jack, Lars von Trier mostra di aver perfettamente assimilato gli insegnamenti di Alfred Hitchcock, e di esserne, con questo film, il più lucido continuatore. Proprio il regista inglese il cui cinema ha avuto il riconoscimento di arte solo in fase tardiva. Pensiamo alla parte dell’infanzia di Jack in famiglia, dove i bambini partecipano alle battute di caccia, e a La congiura degli innocenti. Pensiamo all’indugiare di Lars von Trier nella scena di strangolamento di una vittima di Jack e alle stesse scene in Frenzy, una delle ultime opere del Maestro che arriva a vette notevoli nell’esibizione di efferatezze, il che ci fa pensare che se fosse ancora vivo subirebbe le stesse accuse dai bempensanti ora rivolte a Lars von Trier. Ma soprattutto il regista danese riesce perfettamente in quello in cui il regista inglese era un maestro, cioè nel farci vedere il punto di vista del criminale, dell’assassino, nel farci stare dalla sua parte, nel farci provare empatia, nel farci trepidare per lui affiché non si scopra per esempio il cadavere nel sacco di patate cadute dal camion in Frenzy. Ancora quindi ci fa stare dalla parte del male. Jack è Lars von Trier stesso e i suoi omcidi sono i suoi film, che non possiamo far altro che apprezzare sia che lo si ami o che lo si odi.
“Vi chiedo di essere pronti ad accettare il bene con il male” diceva Lars von Trier chiudendo ogni puntata del serial televisivo The Kingdom. Non si può accettare il primo senza ammettere anche il secondo. Nel suo cinema von Trier vuole affrontare il Male, immergersene, anche attraverso una sua fascinazione estetica, e metterlo di fronte al pubblico lasciandolo con le spalle al muro.
Giampiero Raganelli