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The Greatest Showman

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VOTO: 6

City of Stars di nome ma non di fatto

Sull’ondata del successo del bellissimo, ma anche – come tradizione vuole – assai discusso La La Land, ecco che un genere come il musical, che in passato, nella gloriosa Hollywood, ha visto grandi nomi del calibro di Stanley Donen, Vincent Minnelli, così come Blake Edwards, Robert Wise e molti altri, torna finalmente alla ribalta in un’America che, di fatto, ha sempre amato la spettacolarità, le luci accecanti, i colori ed i balli travolgenti. Quale occasione migliore, dunque, per radunare un cast di tutto rispetto – con a capo Hugh Jackman, affiancato da Michelle Williams, Zac Efron e Rebecca Ferguson – e mettere in scena la controversa storia di P. T. Barnum, impresario ed uomo di spettacolo, famoso per il suo circo in una New York di metà Ottocento? Detto fatto. E così, con la regia di Michael Gracey, ha visto la luce The Greatest Showman, favola indubbiamente edulcorata del celebre impresario statunitense che punta a lasciare a bocca aperta lo spettatore con la sua imponente messa in scena, analogamente a quanto accadeva durante gli spettacoli organizzati dallo stesso Barnum.
Perfettamente in linea con ciò che si sta raccontando, The Greatest Showman si apre con brevi scene che ci mostrano l’infanzia disagiata di Barnum, il suo incontro con la giovanissima Charity e, nell’arco di pochissimi minuti, vediamo i due crescere, ritrovarsi da adulti, sposarsi ed avere due bambine. Tutto sembra procedere senza particolari scossoni, fino a quando, dopo aver perso il lavoro, Barnum non deciderà di aprire un suo circo a Manhattan. Malgrado il successo, ovviamente nasceranno non poche polemiche a causa della sua presenza al centro della città e dei suoi “discutibili” artisti.
Se, dunque, lo sfortunato Tod Browning all’epoca ci aveva mostrato gli aspetti più torbidi ed inquietanti del mondo circense – prima con Lo sconosciuto (1927), poi con il più noto e controverso Freaks (1932) – ecco che oggi Gracey, pur mostrandoci un circo nel quale, come di consueto, sono soliti esibirsi i cosiddetti “emarginati” dalla società, punta a conferire a tutto il lavoro un tocco quasi giocoso, con un (non troppo) velato ottimismo di fondo ed un lieto fine annunciato fin dai titoli di testa. Ed ecco che la storia di Barnum, il quale, secondo fonti ufficiali, parrebbe non essere stato proprio quello che si dice un datore di lavoro magnanimo, viene più che mai edulcorata ai fini di creare una sorta di favola pre natalizia che punta soprattutto ad intrattenere il pubblico con canti e balli per circa due ore. Il risultato finale è sì un prodotto gradevole e ben confezionato – con una regia accurata e mai gratuita ed ottime ambientazioni che ci mostrano una New York di metà Ottocento ben rappresentata in ogni minimo dettaglio – ma anche, tuttavia, come ben si può prevedere, qualcosa di estremamente impersonale, che punta molto in alto, ma che, proprio per la mancanza di una propria, ben definita, personalità non fa che confondersi all’interno della miriade di titoli usciti in sala nell’ultimo anno.
Stesso discorso vale per le musiche: mediamente orecchiabili e ben montate insieme alle immagini, pur accompagnando bene il racconto, purtroppo risentono della mancanza di un pezzo che resti in testa allo spettatore anche parecchio tempo dopo la visione. Analogamente – è inevitabile pensarci – a quanto è accaduto con “City of Stars” in La La Land. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia.

Marina Pavido

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