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The Great Green Wall

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VOTO: 7.5

Toccare con mano la resilienza

Prodotto da Fernando Meirelles (nel 2002 ha diretto City of God, che ha ottenuto più di 50 premi in giro per il mondo), The Great Green Wall di Jared P. Scott è un on the road musicale che ci fa toccare con mano le questioni profonde dell’Africa, facendocele percepire come essenziali anche per noi del ‘cosiddetto mondo ricco’. A traghettarci è la star della musica maliana, Inna Modja, la quale decide di intraprende un viaggio lungo il percorso del progetto della Grande Muraglia Verde, una barriera di 8.000 km di alberi lungo tutto il continente come risposta alla desertificazione, ai mutamenti climatici, ai conflitti e alle migrazioni di massa.
«Dobbiamo osare inventare il futuro» aveva affermato, con convinzione Thomas Sankara, un militare, politico e soprattutto rivoluzionario e patriota del Burkina Faso. Questa frase campeggia all’inizio del documentario quasi a volerci indirizzare già lo sguardo (che non significa pilotarlo), non solo in qualità di spettatori, ma anche di cittadini di questo pianeta – e forse, oggi più che mai, acquista valore per tutti, se pensiamo alle questioni climatiche che si stanno manifestando anche in Occidente e al covid-19 contro cui si sta combattendo globalmente.
Il corridoio di una luogo spoglio, ma con luci calde, a un tratto la macchina da presa gira (facendoci sentire il movimento di macchina) a sinistra per farci conoscerei lei, Inna Modja, mentre canta come se stesse incidendo un nuovo brano. «Ho protetto tutte le donne e anche me stessa», recita un verso di un suo brano; sembra quasi che la stiamo spiando, ma in realtà la donna è ben consapevole del mezzo che la sta inquadrando e del ‘potere’ (nell’accezione migliore del termine) comunicativo che potrà avere.
La cantautrice attivista dimostra a parole e coi fatti le responsabilità che avverte su di sé: «Da artista posso usare la mia voce per diffondere il messaggio; usare la musica per mettere luce su storie individuali e collettive». Tra i punti di forza di questo documentario c’è la fruibilità: non è semplice coinvolgere un pubblico che si sente lontano dal continente africano, arrivando ad assumere atteggiamenti poco umani verso gli immigrati. Questo accade anche per la poca conoscenza che si ha di quel territorio e delle persone (ci si sente così assistendo a The Great Green World). Il regista ha trovato – o chissà che non si siano ‘trovati a vicenda’ – la chiave giusta per veicolare tutto questo, senza moralismi, scegliendo una donna con grandi valori, appartenente al popolo africano («Venendo dal Mali non posso girarmi dall’altra parte») e artista – tutti elementi che caratterizzano il punto di vista. «È stato emozionante usare la musica. Inna compone mentre si apre emotivamente e intellettualmente all’idea del Great Green Wall. La vediamo elaborare le sue esperienze in tempo reale: da una presa di coscienza a una profonda comprensione dei problemi delle persone. Più che sceneggiato, tutto questo appare autentico. È stato un processo organico, quasi un diario scritto al presente da una cantante ambientalista con legami profondi con questa terra» (dalle note di regia di Scott).
Dal Senegal al Gibuti, Inna duetta in ogni città con un musicista/cantante locale (Didier Awadi, Songhoy Blues, Waje e Betty G) per la realizzazione dell’album con cui vuole promuovere e alimentare l’African dream. «È una storia di resilienza, di come prendere il mano il proprio destino». Sono parole che dice all’inizio del percorso e che torneranno ancora più forti (ed elaborate interiormente) alla sua conclusione. La donna si e ci pone tante domande e, dal furgone, con cui macina chilometri afferma: «sono in cerca di risposte».
Jared P. Scott dimostra una grande padronanza del linguaggio cinematografico, scegliendo una punteggiatura ben precisa: ad esempio alterna le tipiche sequenze da on the road al primo piano della ‘Regina dello Shiba’ che guarda in macchina quando deve chiudere un pensiero e/o una deduzione dopo aver incontrato una nuova storia. A ciò alterna delle immagini che mozzano il fiato sia nel senso positivo con il drone che riprende la distesa di alberi; sia in quello negativo, arrivando a dare anche un pugno nello stomaco allo spettatore che non può non sentirsi richiamare da quel «Tutti noi abbiamo la responsabilità di fare qualcosa». In quest’ultimo caso ci riferiamo al drone che riprende la desertificazione che avanza, alle immagini d’archivio della carestia degli anni ‘80 in Etiopia o ancora alle riprese realizzare col cellulare dei conflitti continuamente in atto. Nonostante questo, una carezza può arrivare – paradossalmente – dal volto di un bambino coi denti spezzati o di una donna che porta il proprio piccolo sulle spalle, osservandoli dal finestrino attraverso gli occhi della musicista.
Inna Modja potremmo ribattezzarla un ‘Virgilio contemporaneo’ che utilizza i versi – in questa circostanza – delle proprie canzoni e dei duetti per denunciare le situazioni presenti in quella che viene considerata ‘la culla dell’umanità’; ma non solo, i brani desiderano invogliare a coltivare il sogno africano, continuando a combattere. In più essere una di loro, la porta a empatizzare ulteriormente con le storie che raccoglie (domandando anche scusa quando cede all’emozione).
The Great Green Wall ha ‘costretto’ l’artista a mettersi in discussione: «Pensavo di conoscere questa terra, ma io non ho quel coraggio, non ho quella resilienza. Ero molto lontana da ciò che ho visto», afferma con un’onestà intellettuale e una purezza d’animo che le fa onore. Immaginiamo che sia stata proprio quest’apertura nello scendere in campo, nell’incontrare gli occhi di chi – per citare un esempio – ha provato per tre volte ad arrivare in Italia e non ce l’ha fatta (per questo si vergogna e non torna dalla famiglia perché sente di aver fallito, avendo la responsabilità di prendersene cura), che l’ha portata a conoscere nel profondo l’Africa e chi la abita fino a poterla raccontare nella sua essenza.
«Nella nostra vita seminiamo ciò che gli altri raccoglieranno. Non posso dire se andrà tutto bene, sta a noi scrivere la storia».
The Great Green World è stato presentato alle Giornate degli Autori nel 2019, ha ricevuto diversi riconoscimenti (tra cui, sempre nel 2019, Premio del pubblico per il miglior documentario al Sao Paulo International Film Festival 2019, Premio del pubblico al Belgrade International Green Culture Festival e Miglior Film all’ECOCUP, Green Documentary Film Festival). Noi abbiamo avuto la possibilità di vederlo alla 30esima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, presentato come ‘Evento Speciale Africa Talks’.

Maria Lucia Tangorra

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