Una Bulgaria dai forti contrasti
In concorso al 41° Bergamo Film Meeting, il lungometraggio del bulgaro Tonislav Hristov non rientra certo tra i titoli la cui visione ci abbia completamente appagato. Alcune scelte di sceneggiatura possono infatti apparire un po’ forzate o trasposte sullo schermo senza la necessaria convinzione. Sebbene, a partire dagli ambienti – così differenti tra loro – individuati dall’autore quale location e cornice ideale dell’indubbiamente articolata narrazione, non manchino comunque spunti interessanti.
Le scelte di vita effettuate dal protagonista di The Good Driver orientano del resto il suo muoversi da un contesto all’altro e quindi l’evolversi del racconto: Ivan (un Malin Krustev dall’espressione costantemente accigliata) lavora come tassista in una località balneare della Bulgaria, dove il turismo fa girare un po’ di soldi e lui stesso faticando come un mulo sta tentando di risollevarsi economicamente, per quanto i suoi contatti in ambito professionale non agiscano in modo sempre convenzionale, regolare, “pulito”. Il contrasto più forte è perciò tra questa cornice sociale in rapido (talvolta anche traumatico) sviluppo e il mondo più tradizionale da cui egli proviene, ovvero quel paesino agricolo al confine con la Turchia dove si è da poco recato per i funerali della madre: un appartato angolo di mondo in cui rifugiarsi e dove ritrovare quella comunità (almeno apparentemente) solidale, più simile a una famiglia allargata, con la quale è cresciuto. Ma “fuori campo” (con la prospettiva però di far irruzione nel film proprio nell’ultima parte) vi è un’altra realtà, rappresentata da quella Finlandia dove Ivan in un momento di crisi personale e lavorativa aveva lasciato moglie e figlio, con la speranza di farvi un giorno ritorno per provare ad aggiustare le cose.
Invece, per una “serie di sfortunati eventi”, il momento della possibile riconciliazione famigliare sembra allontanarsi ogni giorno di più, facendo sì che una soluzione positiva diventi col tempo davvero improbabile. Ecco, se Tonislav Hristov ha buon gioco nell’affrescare certi contrasti, anche acuti, tra il clima maggiormente dissoluto di quella parte della Bulgaria in piena, rapida crescita e i retaggi tradizionali dell’arretrata ma genuina località di cui è originario il protagonista, convince decisamente meno la costruzione del personaggio, il quale più che altro sembra relazionarsi stancamente, passivamente, al continuo susseguirsi di piccole o grandi calamità, letali tanto sul piano privato che nella così precaria dimensione lavorativa. Il suo reagire agli eventi appare di volta in volta eccessivo o troppo blando, a livello psicologico, fino a quell’epilogo parzialmente consolatorio che però non riguarda direttamente lui, bensì una famiglia di rifugiati che non aveva voluto aiutare per poi pentirsene; il che, a nostro avviso, rende tutto meno realistico in quanto incline a un “politically correct” di facciata.
Per non congedarci bruscamente dalla Bulgaria, però, il cui cinema propone sovente tematiche, segnali e intuizioni oltremodo interessanti, vogliamo chiudere il discorso segnalandovi un gran bel documentario, presente a Bergamo nella sezione Visti da vicino, realizzato invece dal connazionale Nikolay Stefanov: No Place for You in Our Town. Ossia un ritratto collettivo sociologicamente e antropologicamente accurato degli Ultrà che sostengono la locale squadra di calcio, in una cittadina mineraria bulgara oggigiorno economicamente depressa ma senz’altro più fiorente all’epoca del suo sviluppo industriale. Un altro film costruito, volendo, su contrasti netti, spiazzanti, ma che rivelano fratture ancora più profonde, nella cultura presa in esame: l’intelligente utilizzo dei materiali di repertorio e in controcampo la capacità di accostarsi agli intervistati ottenendo subito la fiducia di soggetti a dir poco difficili, fanatici, ruvidi, sono doti che assicurano a tale indagine cinematografica ampie dosi di vivezza e sincerità, soprattutto per lo spaccato sociale – a tratti inquietante – che poco alla volta ne emerge.
Stefano Coccia