Il grande sceneggiatore a cent’anni dalla nascita
Prezzolato da MGM e Paramount, pluricandidato all’Academy Award, presidente per due anni della Writers Guild of America, gruccia letteraria dei registi più popolari, Ernest Lehman è stato un prezioso ingranaggio nella meccanica del sistema, un professionista al quale non si può certo dare dell’indie o dell’underground. Eppure, tutt’altro che un conservatore, artisticamente parlando. Al contrario, un rabdomantico intercettatore di tendenze alla cui crescita, con la sua typewriter e, talvolta, il suo denaro, ha sensibilmente concorso. In un’immaginaria segnaletica stradale, lungo l’itinerario accidentato che dalla vecchia conduce alla nuova Hollywood, dal cinema classico al moderno, leggeremo sovente il cognome (e il credit) Lehman, mentre la diligenza, per storpiare Truffaut, attraversa le rovine del codice Hays, lo smembramento dei circuiti distributivi dello studio system, le rivoluzioni del costume e le urgenze imposte da un’attualità sempre più bellicosa e fiammeggiante. Due titoli, a mo’ di paradigma. West Side Story, per cominciare, o della fatica, assai proficua, di Lehman di ricavare uno script dal capolavoro di Leonard Bernstein e Steven Sondheim che aveva mutato la pelle del musical, iniettandone, nel corpo secolare, temi di forte rilevanza sociale come l’immigrazione, le tensioni razziali, il teppismo di strada. In un’epoca in cui la macchina da presa evadeva dai teatri di posa per marciare alla conquista della verità di setting autentici, West Side Story di Robert Wise e Jerome Robbins, uscito nel 1961, tasta il polso dei bassifondi newyorkesi insanguinati dai conflitti etnici di cui i Jets e gli Sharks sono rappresentanti antonomastici, per struggerci, sulla falsa riga di Romeo e Giulietta, con la tragedia dell’infausto amore tra il polacco Anton e la portoricana Maria, in una giostra spericolata di danze marziali, erotismo e morte. Chi ha paura di Virginia Woolf?, poi. In patria, Who’s afraid of Virginia Woolf?, come il kammerspiel di Edward Albee che Lehman accompagna, nel 1966, alla messa in scena cinematografica, impietosa telecronaca di come, in una notte di abbandono morale, il quadrifoglio Taylor-Burton-Dennis-Segal finisca tritato fino da incomprensioni e recriminazioni e nevrosi incrociate. Per la spregiudicatezza delle problematiche affrontate, per l’abrasività del linguaggio, per gli spasmi di un editing così frammentario e pulsante, il film, firmato dall’esordiente Mike Nichols, fece molto scalpore. E Lehman, che si era esposto anche sotto il profilo produttivo, ne venne ampiamente ricompensato. Non solo per aver favorito il debutto di uno dei filmmaker cruciali della new wave statunitense, ma anche vedendo la sua creazione candidata all’Oscar per la migliore motion picture (statuetta, come noto, ritirata dai produttori). E accaparrandosi pure una nomination “personale” come sceneggiatore.
Compirebbe oggi cento invidiabili anni, Ernest Paul Lehman, se non fosse scomparso nel luglio del 2005, ragion per cui si fronteggiano, nel 2015 in atto, due ricorrenze. E chissà quanti insegnamenti potrebbe ancora impartirci, con la sua ironia, l’abilità nell’appropinquarsi nei cunicoli più stretti della psiche, il talento di far riflettere divertendo, la lungimiranza nel cogliere, da capo, gli orientamenti della Settima Arte e, insieme, l’intuizione sagace dei mutamenti della società. Se la morte lo coglierà in California, ormai sua dimora da tempo immemorabile, il suo corpo fanciulletto giacque, invece, sulle sacre sponde dell’Atlantico. Discendente dalla buona borghesia della East Coast, era nato a New York e lì aveva trovato le prime occupazioni nel campo del giornalismo. Per rotocalchi e pagine di spettacolo soprattutto. Insomma, aveva sperimentato su di sé la cupidigia e l’arrivismo che descriverà nella novella da cui, poi, andrà a estrapolare il copione di Piombo rovente (1957). Non dimentichiamo che il titolo originale, assai più evocativo, suona, non a caso, Sweet Smell of Success. Frutto del soggiorno americano di Alexander Mackendrick, il film, che tanto deve alla caratterizzazione luciferina del Hunsecker di Burt Lancaster, critico teatrale imperioso e potente, è un impagabile mélo fotografato come un noir, in cui Broadway è tratteggiata come coacervo di ambizioni sbagliate e di traffici criminosi, soffusa, al contempo, di passioni amorose miasmatiche, non senza accenni a derive incestuose.
Quando scrive Piombo rovente, Lehman è, tuttavia, uno screenwriter già conosciuto e decorato all’onore. L’apripista dei suoi successi era coinciso proprio con la prima commissione, La sete del potere (Executive suite, 1954), che narra la diatriba di rivalità e cospirazioni alimentata dalla morte del presidente di una pecuniosa corporation. Dietro l’obiettivo, lo stesso, ipertrofico Wise con cui a Lehman capiterà, spesso e volentieri, di “duettare”. Solo due anni più tardi, infatti, l’accoppiata sortirà Lassù qualcuno mi ama (Somebody Up There Likes Me), consacrazione divistica di Paul Newman. Ispirato alla biografia di Rocky Graziano, il lungometraggio innesta nel filone pugilistico e nel biopic virgulti di commedia e melodramma, con un’attenzione speciale alla policromia psicologica del protagonista, tra irrequietudine, opportunismo, megalomania, complessi d’inferiorità, disperato bisogno d’affetto, tormenti familiari. E, dopo la magnificenza di West Side Story, riecco Lehman e Wise alla prese con un altro musical, The Sound of Music (1965), dalla premiata ditta Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II, (arci)noto da noi come Tutti insieme appassionatamente. Che dire, di un multimillion seller che ha fatto sognare generazioni di bambini (e adulti)? Forse che, a renderlo un evergreen, al di là dei numeri canori, della trama, dei drammatici riferimenti all’espansione del leviatano nazista in Europa, che impongono un inconsueto passaggio a toni plumbei dell’ameno libretto, è la figura decisa e irriverente di Maria, novizia sottratta a Dio dall’amore terreno, esaltata, sullo schermo, da una radiosa Julie Andrews.
Il musical è un genere con il quale Lehman si è spesso misurato. Sempre da Rodgers & Hammerstein proviene Il re ed io (The King and I, 1956), storia celeberrima dell’istitutrice britannica che domò l’implacabile monarca del Siam. Con le coreografie di Robbins, la direzione orchestrale di Alfred Newman, la regia di Walter Lang, la pellicola, un trionfo del più delizioso kitsch hollywoodiano, tutto fondali e arzigogoli di cartapesta, si lascia godere, ormai, più che altro, per il brio di Deborah Kerr e l’istrionismo di Yul Brynner, ma non va trascurata la sequenza, tutt’altro che banale, in cui una rappresentazione della Capanna dello zio Tom alla maniera del teatro indocinese si configura come una mise en abîme colma di allusioni politiche. Nel 1969, invece, Lehman sceneggia, per Gene Kelly, Hello, Dolly! di Jerry Herman, primattrice una prorompente Barbra Streisand. Sì, Hello, Dolly!, rispetto ad altre opere griffate da Lehman negli anni Sessanta, costituisce un ritorno al passato e alla tradizione, più per i contenuti che per altro, dato che lo spettacolo aveva debuttato sul palcoscenico solo poche stagioni prima; eppure, benché privo di innovazioni, Hello, Dolly! è ancora capace di donare, allo spettatore, picchi vertiginosi di piacere scopico.
Il meglio di sé, tuttavia, Lehman lo aveva già elargito nel decennio precedente, accanto a due cineasti europei dall’America adottati e osannati: Billy Wilder e Alfred Hitchcock. Wilder attraversa un (esteso) periodo di transizione, quando incontra Lehman, perché il brillante sodalizio con Charles Brackett si è spezzato dopo Viale del tramonto e ancora, il maestro, non ha conosciuto I.A.L. Diamond. Per il regista galiziano, Lehman traspone una graziosa pièce di Samuel A. Taylor e il risultato, Sabrina (1954), è una delle rom com più eleganti mai confezionate, nella quale il trio Hepburn-Bogart-Holden, con la stessa commovente levità, esegue gli impensabili rondò del sentimento e s’impelaga nelle logiche opprimenti del pregiudizio e del classismo. Di un ricco che si innamori di un povero, si dirà che è democratico, insegna a Sabrina il padre chauffeur, incassando i sospiri della ragazza per il figlio dei padroni, ma nessuno definirà mai democratico un povero che si innamori di un ricco. Già. Se per Sabrina Lehman guadagna il Golden Globe, per Sir Alfred congegna una sceneggiatura (originale) tra le migliori di sempre, quella di Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959), film mitico, analizzato in ogni frame, imitato e idolatrato da pubblico e cinefili. Se Hitch organizza la partitura visiva con una coerenza geometrica attraverso la quale, fin dai titoli di testa di Saul Bass e fino all’ultima, sfiziosa inquadratura (il treno che entra nella galleria durante la prima notte di nozze di Cary Grant ed Eva Marie Saint…), viene ribadito il concetto empirico e metaforico dell’intersezione, Lehman dimostra una conoscenza alessandrina dei dogmi dell’entertainment e delle leggi dell’affabulazione nell’intrecciare i fili di un plot che è, di fatto, un rompicapo, di una vicenda che comincia nella Grande Mela e si risolve, dopo essersi contorta all’inverosimile, ai monti Rushmore, tra biechi scagnozzi che tallonano agenti dell’intelligence in realtà inesistenti, donne fatali d’inconcussa perfidia che si scoprono limpide patriote di esemplare generosità, uomini comuni che, fagocitati loro malgrado in situazioni da perdere il senno, si ritrovano eroi. Magistrale connubio di spy-story e giallorosa, commedia degli equivoci e film d’avventura, Intrigo internazionale è, senza dubbio, il più mirabolante copione di Lehman. Il quale tenterà di riprodurre lo stesso mood e un analogo ritmo in Intrigo a Stoccolma (The Prize, 1963), garbuglio spionistico ambientato nella capitale svedese nei giorni della cerimonia di conferimento dei Nobel; ma Mark Robson, che dirige, non è Hitchcock, e The Prize rimane “soltanto” un gustoso prodotto di genere al servizio di un dinamico Newman. Con il monstrum di Leytonston, invece, lo sceneggiatore tornerà a lavorare in occasione di Complotto di famiglia (Family Plot, 1976), ultimo cimento del regista. Che, dopo alcune prove non troppo felici, proprio accanto (grazie?) a Lehman recupera l’estro dei suoi artefacta più accattivanti, congedandosi con un valzer impetuoso di chiromanti truffaldine, rapimenti, doppie identità e segreti familiari annidati nel passato remoto. Hitchcock e Lehman progettavano insieme nuovi lavori, quando la malattia uccise il re del brivido. Dal canto suo, Lehman si distanziò progressivamente dall’industria audiovisiva per dedicarsi ad altre attività, letteratura in primis. Ma anche se, ormai, da lungo tempo la decima Musa non ispirava più la sua scrittura, l’establishment hollywoodiano mostrò di non essersi dimenticato di lui tributandogli, nel 2000, l’Oscar per l’intero suo cursus (honorum). Unica statuetta che a Lehman fu dato di stringere, dopo sei “chiamate” a vuoto. Per la prima volta, il premio alla carriera veniva concesso a uno sceneggiatore.
Dario Gigante