Alla ricerca della propria voce
Alla 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha ricevuto il premio Osella per la migliore sceneggiatura ed effettivamente The Disciple di Chaitanya Tamhane (il quale ha curato anche questo aspetto) ci ha colpiti in primis per la scrittura e per la storia che ha deciso di rappresentare.
Sharad Nerulkar (Aditya Modak) ha un obiettivo nella vita, quasi fosse una missione: diventare un interprete della musica classica indiana. Per come questa è concepita, non è semplice emergere e, come in tutti gli ambiti, ancor più artistici, la ricerca è infinita. Iniziato dal padre a una tradizione millenaria, insegue il suo sogno con sincerità e disciplina, impegnandosi incondizionatamente nel percorso artistico, con una devozione senza pari verso il maestro La sua passione è talmente forte che scava anche nei misteri e nei rituali sacri delle leggende musicali del passato, provando anche a replicarli. Impossibile non accorgersi che questo possa essere un punto in comune con le altre realtà internazionali (certo la nostra musica classica, in particolare con maestri come Verdi, Puccini, Rossini, gode ancora di molta fortuna, talvolta ancor di più all’estero). Il regista, il dipanarsi della vicenda e il protagonista sono molto chiari nel mostrarci lo scarto e l’impatto che Sharad avverte nel confronto con la complessa realtà della vita nella Mumbai contemporanea. In alcune scene si rende palese la sua condizione di ‘alieno’ in un mondo che vuole andare a un’altra velocità e privilegiare altre direzioni, provando a far cadere nell’oblio la tradizione.
Leggendo le note di regia, si ha quasi la sensazione che il nostro protagonista sia, a tratti, l’alter ego del regista: «mi sono perdutamente innamorato del mondo della musica classica indiana. Le storie fantastiche dei grandi musicisti, la tradizione millenaria della loro disciplina e, naturalmente, la ricchezza insita nella musica mi hanno incantato. Alla luce dei suoi legami con la mitologia, la spiritualità e un sapere misterioso, fede è la parola chiave per la maggior parte di coloro che praticano questa musica. La fede è ciò che li spinge a dedicare l’intera vita a padroneggiare questa complessa forma d’arte. Ma poi, ci sono la vita e i suoi accadimenti. La storia ha preso forma nella mia mente a partire dall’esplorazione di questi temi. Sebbene ambientata nel caos di una Mumbai ipermoderna, trovo che il conflitto che la governa si applichi, nella sua essenza, su scala universale. Tutti abbiamo diritto alla vita e non abbiamo alcuna alternativa se non adattarci e sopravvivere».
Il bello di quest’opera è che né l’allievo né il maestro vogliono meramente sopravvivere “adeguandosi” nel fare altri lavori, desiderano sopravvivere con ciò che amano: l’uno prova a trasmettere qualsiasi segreto – anche con durezza – all’altro; il discepolo (non è un caso che questo termine abbia anche un’accezione religiosa) lo segue, stringendo i denti, e standogli accanto ogni volta in cui può, ricordandogli che certo bisogna guadagnarsi il pane per vivere, ma c’è un limite di fronte alla salute.
Se da un lato verrebbe da definire The Disciple una favola anche per la testardaggine con cui l’uomo, con lo studio, vorrebbe sopperire alle mancanze del talento; dall’altro è un’opera che pone il pubblico di fronte alla realtà storica e sociale di Mumbai, del doversi inventare i lavori per “resistere” e quelli artistici purtroppo sembrano essere per pochi eletti.
Mediante “lo studio matto e disperatissimo” Sharad cresce, sviluppando un’ottica sulla realtà che può far soffrire, ma è la dura legge “della strada” e “della platea” che lo porta a essere un uomo più maturo.
Non mancano alcune caratteristiche del cinema indiano, dai paesaggi ad ampio respiro ai luoghi caldi e raccolti in cui si esibiscono; senza dimenticare il ritmo che quasi vuole andare di pari passo con la formazione dell’uomo.
Maria Lucia Tangorra