Un cordone ombelicale fatto di note
Torino. SEEYOUSOUND. Ancora una volta è un film della sezione LP Feature (quindi un lungometraggio di finzione) ad aver stimolato in partenza la nostra curiosità. E ancora una volta, dopo il non eccelso ma comunque gradevole, interessante The K-Pop Story, ad attrarci inesorabilmente è stata una proposta cinematografica di provenienza asiatica. Con The Cord of Life della cineasta cinese Qiao Sixue è però scattato un vero e proprio colpo di fulmine.
La regista è originaria della Mongolia interna, il che rende in qualche modo protagonista il paesaggio. Le steppe dell’Asia, quell’orizzonte apparentemente concepito per essere raggiunto solo a cavallo, quei terreni brulli che sembrano estendersi all’infinito, sono la linfa di cui si nutrono straordinarie inquadrature panoramiche, orizzontali, all’interno delle quali un cielo terso pare quasi schiacciare e comprimere in basso la terra percorsa dagli uomini. Pochissimi uomini.
Protagonista è comunque anche la musica. Quasi scontato sottolinearlo, in merito al festival torinese. Lo è poi, protagonista, in una dimensione creativa che attraversa la contemporaneità ma affonda le sue radici nella Tradizione.
Già l’accattivante sequenza iniziale ci mostra Alus, il protagonista, impegnato in una performance musicale votata alla sperimentazione, all’ibridazione, laddove la musica elettronica convive con l’impiego estemporaneo di strumenti tradizionali. Siamo qui ancora in un ambito prettamente metropolitano. Ma una telefonata con la madre, da cui il giovane musicista deduce che l’Alzheimer le ha drammaticamente portato via un’altra fetta di memoria e coscienza di sé, lo convince a raggiungere quanto prima l’appartamento dove la donna vive con parte della famiglia. Lì troverà un altro ambiente urbano totalmente degradato. E questo convincerà Alus a riaccompagnare la madre in quella “sgarrupata” casa di famiglia, persa nelle steppe mongole, che oltre allo scrigno dei ricordi aprirà ad entrambi la possibilità di confrontarsi con una diversa, più antica prospettiva esistenziale. Tra incontri sorprendente e qualche scorcio di visionarietà pura.
In The Cord of Life il contrasto tra quelle realtà metropolitane che fagocitano l’individuo e certe aree rurali in cui ancora sopravvivono differenti stili di vita può essere accostato, volendo, a quello già esplorato dai più importanti registi cinesi contemporanei, su tutti lo Jia Zhangke di Platform (2000) e Still Life (2006). L’opera prima di Qiao Sixue pone pure lei, quindi, tra i cantori di questo mondo in continua trasformazione; quantunque ciò avvenga da un’angolazione a tratti anomala, poiché votata a esplorare parallelamente i contorni di un cinema di poesia, surreale, onirico, situazionista, le cui sequenze più visionarie e trasognate ci hanno riportato alla memoria altre immaginifiche pellicole come, ad esempio, l’indimenticabile Luna Papa (1999) del tagiko Bakhtyar Khudojnazarov. L’impressione è tale sin dal momento in cui Alus, per evitare che la madre scappi di nuovo e si perda nella desolazione circostante, la lega a sé con una corda colorata, quasi a rovesciare il rapporto genitoriale attraverso un nuovo cordone ombelicale. Tant’è che quando entrambi si metteranno in viaggio, addirittura pedinati a un certo punto da un drone indiscreto, per ritrovare quell’albero solitario riemerso dai ricordi infantili di lei, la donna tirerà fuori archetipi e mitologie della steppa come Tengri, il dio del cielo azzurro presente nella cultura religiosa delle popolazioni turche e mongole. Chi ha visto qualche anno fa L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud sa di cosa stiamo parlando. Un discorso simile vale, naturalmente, per i fan dei Tengger Cavalry, la band formatasi a Pechino il cui folk metal è inno a furenti cavalcate nella steppa e ad altri tratti fondanti della Storia mongola.
Magici in questo lungometraggio ammaliante sono più che altro gli elementi rituali, le danze, i momenti comunitari accompagnati dal suono di strumenti tradizionali. Specie nelle così evocative scene notturne poste verso la fine. Allorché lo stesso Alus si confronta di nuovo con il morin khuur, (马头琴 in cinese), noto anche come violino a testa di cavallo, strumento ad arco tradizionale della Mongolia di cui aveva appreso l’uso sin dall’infanzia.
Stefano Coccia