Non credere a ciò che vedi
Titolo ingannevole. Locandina di più. Sembra un altro potenziale Freddy Krueger, ad una prima impressione scaturita dalle apparenze, questo The Bye Bye Man della rediviva Stacy Title; ma al contrario si addentra narrativamente in territori del tutto ordinari, cosa che per un horror rappresenta già una discreta zavorra a prescindere. Più simile, almeno nelle premesse, al mostruoso, inquieto e vendicativo spettro di Candyman (1992) – sia pur svuotato di ogni background razziale, sociale e sessuale – questo nuovo “uomo nero” non andrebbe né nominato e neppure pensato, cosa che regolarmente fanno tre universitari – due amici e la ragazza di uno di loro – talmente felici e affiatati da far pensare subito allo spettatore che l’idillio avrà durata piuttosto breve. Infatti. Dopo un prologo ben riuscito a rievocare in flashback una strage avvenuta anni prima, il terzetto prende possesso di una spaziosa e solitaria magione proprio fuori dal campus. Attraverso un meccanismo narrativo tutt’altro che suggestivo il “bau bau” in questione li porta a conoscere il proprio nome, entrando così di forza nei loro pensieri. Ovviamente, ai malcapitati, mal gliene incoglierà.
Se il peso specifico di un horror fosse direttamente proporzionale alla tridimensionalità della creatura negativa di turno, ebbene The Bye Bye Man avrebbe un quoziente molto vicino allo zero. Puro MacGuffin – per dirla alla Alfred Hitchcok – messo lì per far evolvere una trama sin troppo anemica, anche nel senso letterale del termine. Personaggi intagliati con l’accetta dello stereotipo, brividi epidermici ridotti al minimo sindacale e paure sottocutanee del tutto assenti, nemmeno ingiustificate. Unica carta da giocare in mano agli autori – stavolta la Blumhouse non c’entra, nonostante il budget visibilmente ridotto – la facoltà allucinatoria del mostro di creare realtà alternative visibili solo nella testa delle proprie vittime. Allo scopo di spingerle alla morte. Nonché dunque, servita su un piatto d’argento, la possibilità di sovrapporre l’illusorietà della macchina cinema con quella tipica della follia (anche cinefila?) incontrollata. Niente di tutto questo è presente nel film. Perché Stacy Title non è John Carpenter e quintessenziali riflessioni sull’argomento tipo Il seme della follia (1994) e il segmento Cigarette Burns della prima stagione dei Masters of Horror (2005) restano modelli purtroppo irraggiungibili. Ragion per cui a The Bye Bye Man – peraltro tratto dal romanzo “The Bridge to Body Island” di tale Robert Damon Schneck: come sia stato possibile scrivere un libro da uno spunto di partenza così esile resta un vero mistero – non resta altro da fare che rifugiarsi nel mestiere della confezione, abbastanza curata in ogni suo aspetto. Davvero troppo poco però anche solo per tentare di entrare nella cerchia dei piccoli cult-movie; mentre è di certo abbastanza per rimanere nella media dei film di genere a target adolescenziale ormai del tutto inflazionati.
Se invece la domanda da porsi era quella di sapere dove fosse finita la regista – Stacy Title, appunto – la quale aveva esordito nel lontano 1995 con la riuscitissima, grottesca, messa alla berlina delle ipocrisie democratiche di Una cena quasi perfetta, allora la risposta è abbastanza impietosa: a dirigere pellicole horror di seconda mano scritte assieme al marito sceneggiatore Jonathan Penner. Buon per loro; meno per gli appassionati che richiederebbero al suddetto genere sempre idee nuove atte a, perlomeno, provare a destabilizzare lo status quo. Nel caso di The Bye Bye Man anche le piccole potenzialità a cui si faceva cenno poc’anzi vengono soffocate in culla nel nome di una malintesa concezione di quello che rappresenti, al giorno d’oggi, il cinema di paura. Un prodotto come altri da commercializzare seguendo pedissequamente il motto improprio di “divertitevi e dormite sonni tranquilli”. Esattamente il contrario, cioè, di quella che dovrebbe essere l’aspirazione minima di ogni opera dichiaratamente propensa allo spavento.
Daniele De Angelis