Nel reame dei violenti sensi di colpa
C’era grande curiosità al 36° Fantafestival per il ritorno di Raffaele Picchio, già autore dell’iper-violento, provocatorio, censuratissimo e a nostro avviso estremamente riuscito Morituris. Invece di legionari zombi e di soggetti fascistoidi della Roma bene da maciullare allegramente, ci siamo ritrovati di fronte incubi e fantasmi della mente. Una trasformazione non così facile da metabolizzare, in principio. Ma a una visione attenta anche The Blind King, pur non raggiungendo l’originalità e i picchi di immaginifica cattiveria del precedente, rivela una regia matura e una ricerca sul perturbante filmico tutt’altro che trascurabile.
I presupposti stessi del plot, nonché la scelta di girare il film in inglese, ci pongono tuttavia nella condizione di immaginare un’origine più su commissione, per questa seconda opera del promettente regista. Del resto tra i produttori ci sono anche Marco Ristori e Luca Boni, altri film-maker nostrani che però hanno acquisito credito presso una platea internazionale dopo l’interessamento di Uwe Boll, laborioso mestierante ugualmente votato al genere, nei confronti dei loro primi lavori.
In The Blind King si nota perciò un curioso volgere lo sguardo verso quel filone del cinema horror, così fortunato oltreoceano, che ha portato negli ultimi anni alla realizzazione di Sinister, The Conjuring, e relativi sequel. Possibile poi che ci sia anche il più sofisticato Babadook tra le fonti di ispirazione. Fatto sta che il racconto prende le mosse dal trasferimento di un piccolo e disastrato nucleo famigliare in una nuova, sinistra abitazione: la madre è scomparsa da non molto, in circostanze che scopriremo essere tragiche; la bambina ha smesso di parlare e non fa che produrre inquietanti disegni dove si allude a una presenza soprannaturale; il padre stesso pare sul punto di perdere la ragione per l’ossessione rappresentata da quei disegni, da incubi sempre più frequenti e da possibili sensi di colpa. A completare il quadro c’è anche la sorella di lui, una ragazza che per quanto la bimbetta e suo padre vorrebbero sentirla più vicina ha comunque scelto di vivere da sola, in seguito a brutte storie di famiglia e a ferite psicologiche difficili da rimarginare.
Ecco, pur perdendosi nella seconda parte in alcune lungaggini, Raffaele Picchio è senz’altro bravo a costruire un’atmosfera spessa in cui si balla a lungo sul filo sottile che separa l’origine metafisica del Male da quel buio della mente, che può portare poi ad atroci delitti. L’approfondimento psicologico dei personaggi è spinto positivamente molto in là, in una forma quasi insolita per il genere. E in ciò l’autore risulta spalleggiato bene dall’intensità con cui recitano sia l’attore americano Aaron Stielstra, ovvero il protagonista del racconto, sia la nostra Désirée Giorgetti (già apprezzata del resto proprio in Morituris), nei panni di sua sorella. Le parti migliori del film risultano ad ogni modo quelle che prevedono deliranti fughe in una dimensione onirica, allucinatoria, perversa. Un montaggio piuttosto accurato fa sì che i repentini passaggi dalla realtà quotidiana al sogno (o per meglio dire all’incubo) siano convincenti, nella loro funzione straniante, il che avviene anche per merito di determinati contributi tecnici e artistici: la fotografia di Alberto Viavattene, le musiche firmate da Cupio Dissolvi e Andrea Pasqualetti, il macabro allestimento del set concepito così da valorizzare le apparizioni di una spaventosa creatura, grazie anche ai costumi di Paola Stefanelli e agli effetti realizzati da Eugenio Casini. Ciò conduce gradualmente verso un finale che vede spalancarsi i peggiori abissi della mente umana, in una maniera che ricorda per l’appunto Babadook dell’australiana Jennifer Kent, ma con un timbro molto più cupo, cattivo e connotato perciò da maggiore coerenza, rispetto al genere di riferimento. Quantomeno per la percezione che ne abbiamo avuto noi.
Stefano Coccia