Home Speciali Saggi Terence Davies, il giorno (non) è finito

Terence Davies, il giorno (non) è finito

229
0

Poeta d’immagini

A proposito di Arte. Al giorno d’oggi va sempre più diffondendosi la convinzione che il Cinema rappresenti una sorta di enclave a sé stante, non più la Settima Arte come romanticamente definita bensì qualcosa di maggiormente simile ad un’industria, un ambito dove è richiesta un’autentica specializzazione. A smentire tale, nefasta, teoria, consiglieremmo di recuperare seduta stante l’intera filmografia dell’autore britannico Terence Davies, scomparso ieri all’età di settantasette anni. Un nome che purtroppo potrebbe dire poco o nulla alle nuove generazioni ma che, al contrario, è stato uno dei più illuminati sperimentatori nel panorama cinematografico degli irripetibili anni ottanta. I lettori si chiederanno giustamente a questo punto il perché di tale definizione. Ebbene, per Terence Davies Cinema, Poesia e Letteratura in generale si sono sempre materializzati come un corpo unico, dimostrando in quali variegati modi la scrittura potesse essere tradotta in immagini così perfette da dover fronteggiare, ad un certo punto della propria carriera, anche la classica “accusa” di manierismo. Wes Anderson docet.
Terence Davies, dopo una serie di corti e mediometraggi ed il poco visto The Terence Davies Trilogy (1983), assurge a notorietà internazionale con Voci lontane… sempre presenti (Distant Voices, Still Lives), opera che si aggiudica il Pardo d’Oro al Festival di Locarno nel 1988. Il destino di tutti i registi britannici che realizzano film ambientati nel proletariato è quello di venire accostati a Ken Loach; tuttavia, nel caso specifico, siamo ben lontani dall’autore socio-politico per eccellenza. Il lungometraggio di Davies, pur raccontando il retaggio della propria famiglia nella Liverpool operaia, è una rapsodia soggettiva di ricordi, un’opera frammentata capace di generare emozione proprio in virtù della straordinaria coincidenza di pensieri ed immagini. Un modus operandi che Davies replicherà nell’ancora più denso Il lungo giorno finisce (The Long Day Closes, 1992), struggente nella rievocazione poetica di un’adolescenza assieme meravigliosa e difficile, anche per la velata omosessualità dell’autore in una famiglia devotamente cattolica. Un periodo temporale che, ad una persona adulta, pare durato a posteriori lo spazio di un respiro. Visioni impossibili da dimenticare appunto per la sublime capacità di Terence Davies – ovviamente anche sceneggiatore di entrambe le pellicole – di rendere universali memorie altamente personali.
Con Serenata alla luna (The Neon Bible, 1995) Terence Davies inizia il ciclo delle trasposizioni letteraria. Qui è il romanzo scritto dall’allora sedicenne John Kennedy Toole a fungere da fonte ispiratrice. Coming of age di ambientazione statunitense in cui è comunque abbastanza facile leggere analogie tra le figure dell’adolescente protagonista e quella del regista inglese, sempre eccellente nel dare forma alla parola scritta. Anche se, va detto, quest’ultima opera incontra meno favore rispetto alle precedenti.
Una tendenza, quella della contaminazione tra cinema e letteratura, che sale ancora di livello con la trasposizione del testo di Edith Wharton The House of Mirth (2000), uscito per la distribuzione italiana come La casa della gioia. Ancora una volta il passaggio dalle parole di un romanzo di una scrittrice illustre alle immagini avviene in modalità del tutto spontanea, grazie alla totale empatia di Davies con un testo di epoca del tutto differente. Un racconto di sofferta emancipazione al femminile che assume molteplici significati anche ad oltre vent’anni dalla sua realizzazione, in un momento di profonda messa in discussione del concetto di patriarcato. Prerogativa dei grandi autori: un’opera in costume che si riflette sul presente.
Dalla letteratura al teatro il passo, per Terence Davies, risulta essere assai breve. Dalla pièce teatrale di Terence Rattigan arriva Il profondo mare azzuro (The Deep Blue Sea, 2011) esplorazione della passione totale di una donna sposata per un ambiguo pilota della Royal Air Force. Un gioiello che smonta il “serioso” concetto di teatralità a vantaggio del purissimo cinema sentimentale, in cui il colore della fotografia rispecchia tutte le emozioni dei personaggi in scena, espandendo il coinvolgimento anche al di là dello schermo. Una perfetta fusione tra forma e contenuto, semplificando al massimo la sostanza critica.
La figura della poetessa Emily Dickinson – ancora da sovrapporre a quella di Davies, il quale non a caso sceglie sempre modelli femminili – si è spesso manifestata, in incognito, nella filmografia dell’autore di Liverpool. Il quale, quasi per sdebitarsi, le dedica un film intero. Siamo nel 2016 e A Quiet Passion racconta la travagliata vicenda umana dell’artista, tra gioiosa gioventù, amori complicati e solitudine finale.
Difficile non leggere un destino comune tra tutti quegli artisti che hanno scelto la via impervia dell’esplorazione dell’animo umano in qualsiasi forma d’Arte lo consentisse loro. Un’Arte composta di tanti vasi comunicanti, che vanno a dar luogo ad un organismo unico tutto da ammirare. Con la speranza che Terence Davies e molti altri non finiscano nel dimenticatoio di un oblio temporale che da sempre costituisce, per loro ma soprattutto per noi, la minaccia più grande.

Daniele De Angelis

Articolo precedenteAncient Lore
Articolo successivoL’orafo

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

dieci + diciannove =