L’oro nero
Quando la vita sembra averci definitivamente voltato le spalle, improvvisamente qualcosa viene in nostro soccorso e una folata di piacevole speranza torna ad accarezzarci la pelle, donando conforto, serenità, sorrisi e un bel sospiro di sollievo. Fortuna o intervento divino non importa, ciò che conta è il fatto di essersi messi alle spalle i momenti bui, come accade ai protagonisti di Tempo instabile con probabili schiarite, opera seconda di Marco Pontecorvo, nelle sale con Good Films a partire dal 2 aprile, non prima di aver aperto in anteprima internazionale la sesta edizione del Bif&St. La pellicola ci catapulta in una tranquilla cittadina delle Marche, al seguito di due amici che un giorno trovano il petrolio nel cortile della loro cooperativa sull’orlo della bancarotta. La scoperta, però, si rivelerà una miscela esplosiva che farà saltare tutte le regole: amicizie che si rompono, matrimoni in frantumi e tutto il paese in subbuglio. Insomma, una vera e propria reazione a catena.
Per il suo ritorno dietro la macchina da presa sul grande schermo dopo la parentesi sul piccolo, che come vedremo a malincuore ne influenzerà negativamente lo stile, Pontecorvo cambia totalmente tono, registro e soprattutto genere rispetto al pregevole e pluri-premiato esordio di Pa-ra-da, commovente dramma ambientato nelle viscere di Bucarest che narra la vera storia dell’artista di strada franco-algerino Miloud Oukili e dei “boskettari”. La scelta cade su una commedia corale che, guardandosi intorno e respirando a pieni polmoni l’aria malsana degli ultimi anni, vorrebbe vestirsi da sarcastica metafora dei vizi e dei difetti, ma anche delle virtù, dell’Italia di oggi. In un epoca che vede le fabbriche cadere come mosche a causa della crisi economica imperante, il cinema, da una parte prova a raccontare la “mattanza” a cui vengono sottoposti datori di lavoro e dipendenti, dall’altra testimonia le modalità e i loro tentativi di resistenza a oltranza. La pellicola del regista romano fa parte di questa seconda categoria, affiancando al suddetto tema principale una serie di tematiche anch’esse di stretta e drammatica attualità: dalla battaglia ecologista alla salvaguardia del territorio, passando per gli intrighi e gli interessi della cattiva politica. I primi due subentrano nel plot come reazione alla scoperta del petrolio da parte dei protagonisti, che porterà alla contestazione e alla protesta più o meno civile nei confronti dell’arrivo del tanto agognato progresso e dei suoi effetti collaterali (il riferimento al movimento No-TAV è piuttosto evidente), mentre il terzo passa in sordina e liquidato in un battito di ciglia. Nel mezzo, le immancabili dinamiche sentimentali, affettive, amicali e generazionali, che nello script cercano affannosamente spazio, sgomitando tra loro per maturare una qualche forma di sviluppo drammaturgico che ne giustifichi quantomeno la presenza.
Proprio questa macchinosa e faticosa coesistenza di più elementi narrativi e nuclei tematici a rappresentare lo scoglio oltre il quale Tempo instabile con probabili schiarite non riesce ad andare. La loro saturazione frena i buoni propositi della scrittura, con il bagno finale di morale a buon mercato al quale spetta l’ingrato compito di chiudere il cerchio. Lo schermo diventa di fatto lo specchio che riflette le tante mancanze strutturali presenti nell’operazione, in primis quelle drammaturgiche, con un’opera cucita più che montata, con le sequenze animate (il manga disegnato dal figlio di uno dei due protagonisti) che appaiono un vezzo più che una soluzione utile e funzionale al racconto. Alle quali seguono quelle estetico-formali, figlie di una regia che non ha idee o spunti degni di nota, che si limita a mettere in quadro quello che di volta in volta sembra la soluzione più giusta da adottare. Senza dimenticare la carenza di ritmo che è l’altro tallone d’Achille di un film che da quel punto di vista risulta singhiozzante. In tal senso, nemmeno l’insistere su soluzioni grafiche (alcune delle quali davvero di pessima fattura, come nel caso dei fondali chiaramente appiccicati in green screen durante le scene ambientate a Roma) e di montaggio (accelerazioni, decelerazioni e via dicendo) serve a dettare tempi e a far scorrere in maniera più veloce e fluida la vicenda. Anche il disegno approssimativo e schematico dei personaggi, appena abbozzati, che non aiuta per niente le performance degli attori chiamati in causa, è l’ulteriore espressione negativa di un’opera debole già alla radice, troppo poco divertente per essere una commedia, troppo poco consistente in termini di argomentazioni per fare riflettere chi la guarda, troppo poco incisiva e potente per sferrare un cazzotto allo stomaco dello spettatore.
Francesco Del Grosso