Musica maestro!
Prima di inoltrarci nei meandri di un’analisi critica sulla totalità dell’opera in questione, una questione va subito chiarita circa la vera identità della figura centrale che la anima, al fine di sfatare qualsiasi dubbio in merito. La protagonista di Tár, a differenza di quello che si potrebbe pensare a un primo incontro sullo schermo, è un personaggio fittizio, frutto della penna e dell’immaginazione del produttore, sceneggiatore e regista Todd Field. Di conseguenza la rinomata direttrice d’orchestra americana Lydia Tár, direttrice della Berlin Orchestra e allieva di Leonard Bernstein, non è mai esistita. La sua ascesa nell’Olimpo della musica classica e la sua rovinosa caduta per via delle accuse di abuso di potere e richieste di favori sessuali fatte a delle dipendenti in cambio di riconoscimenti professionali, finiranno col travolgerla all’apice del successo, quando è in procinto di pubblicare una sua autobiografia e registrare dal vivo la Sinfonia n. 5 di Mahler. Si assiste insomma al tradizionale declino che fa seguito a una parabola ascendente quando la fortuna deciderà di voltarle le spalle. Un declino, il suo, del quale la letteratura cinematografica è piena di precedenti sin dalla notte dei tempi della Settima Arte.
Viene da sé che il film che ne racconta la travagliata e controversa vicenda è un biopic incentrato su un soggetto di fantasia, che nulla ha di vero, se non il realismo con il quale vengono disegnati il suo ritratto e la cornice che lo accoglie, ossia il mondo della musica classica e delle orchestre. Eppure i più attenti, compresa la diretta interessata, hanno rintracciato una serie di assonanze e similitudini con Marin Alsop, famosa direttrice d’orchestra statunitense, che ha molto in comune con la protagonista della pellicola di Field. Anche lei lesbica e sposata con una musicista, beniamina del maestro Bernstein, la Alsop si è sentita chiamata in causa, quel tanto da innescare una polemica per via dei tantissimi aspetti di Tàr, fatta eccezione per l’accusa di abuso di potere e favoritismi in cambio di prestazioni sessuali, che sembravano allinearsi alla sua vita privata. Polemica che per fortuna è rimasta tale e non ha mai preso le vie legali, oltrepassando la soglia di un’aula di tribunale. Motivo per cui il film ha potuto proseguire il proprio cammino distributivo e festivaliero, iniziato il 1º settembre 2022 in occasione della 79ª Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, laddove è stato presentato in concorso, aggiudicandosi la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Cate Blanchett, con quest’ultima che si è aggiudicata anche un Golden Globe e una delle sei candidature agli Oscar. Ma per vedere se questa si tramuterà in una statuetta, la terza della sua carriera, dovremo attendere la notte tra il 12 e il 13 marzo 2023. Nel frattempo il pubblico nostrano potrà godersi questa ennesima straordinaria performance di un’attrice in perenne stato di grazia a partire dal 9 febbraio, data scelta dalla Universal Pictures per l’uscita nelle sale italiane.
È l’attrice australiana a caricarsi sulle spalle l’intero film, oltre a indossare i panni di un personaggio ostico e assai complesso da interpretare, che si districa tra il percorso di affermazione come donna e professionista che fa fatica a separare la sfera privata da quella lavorativa e i giochi di potere nel mondo dell’arte e non solo. Non a caso il film è stato battezzato con il cognome della sua protagonista, proprio per dare al personaggio e a colei che ne veste i panni la centralità. Ecco perché tutto ruota e si sviluppa intorno al lei, che diventa di fatto la colonna vertebrale che sostiene l’esoscheletro del racconto. Ma la Blanchett, da attrice navigata e di assoluto livello qual è, ha fatto sua Lydia Tár, diventando l’ago della bilancia di un’opera che ha nei suoi confronti una dipendenza fortissima. Senza il suo contributo, per quanto ci riguarda determinante ai fini della riuscita, probabilmente, anzi sicuramente, l’esito non sarebbe stato lo stesso. La sua performance alza ulteriormente l’asticella come era stato anche per Carol, tanto per citare un titolo. L’attrice, ben supportata anche dai comprimari, è bravissima nel restituire le tantissime sfumature e stratificazioni di una donna in equilibrio costante tra il bene e il male, oltrepassando continuamente la soglia che separa i due opposti e restituendo anche quello che c’è nel mezzo.
Potendo contare su un pilastro solido come la Blanchett, Field ha potuto affrontare con più sicurezza temi scomodi e attuali, affidandosi alla credibilità della sua interprete. A tal proposito, i dialoghi si fanno più delle azioni il veicolo attraverso cui tali temi vengono sviscerati. Ovvio allora che la scrittura necessitasse di qualcuno in grado di accoglierla, sostenerla e potenziarla ulteriormente. E quel qualcuno non poteva che essere l’attrice australiana, che in passato aveva svariate volte dimostrato di avere tale capacità (in Elizabeth e The Aviator, così come in Diario di uno scandalo, in Veronica Guerin o nel già citato Carol). Che avesse bisogno di un’artista della sua caratura, con una carriera da attore alle spalle a sua volta al servizio di nomi del calibro di Stanley Kubrick (lo ricorderete nelle vesti di Nick Nightingale in Eyes Wide Shut), Field ne era cosciente.
Il regista, qui alla sua terza prova dietro la macchina da presa di un lungometraggio dopo i convincenti In the Bedroom e Little Children, ha saputo sbrogliare il groviglio di argomentazioni dal peso specifico rilevante e di stratificazioni dell’esistenza che è stato chiamato a raccontare dopo la bellezza di sedici anni di inattività. Ma del resto una volta imparato ad andare in bicicletta, non si scorda più. Field lo ha dimostrato portando sul grande schermo un storia che esplora in profondità la natura mutevole del potere, la sua durevolezza e l’impatto sul mondo moderno. Lo ha fatto prendendosi i suoi tempi, con una macchina da presa che punta sulle geometrie pulite di una composizione elegante, dai lenti e chirurgici movimenti di una cinepresa che si mette al completo servizio dei personaggi e della storia (vedi il long take nella scena della lezione alla Juilliard). Da qui i 140 minuti di timeline che sembrano sulla carta eccessivi rispetto alle reali esigenze narrative e drammaturgiche, ma che invece si riveleranno funzionali al disegno della parabola umana e professionale di Lydia, accompagnata per l’occasione dalle note avvolgenti e magnetiche della colonna sonora di Hildur Guðnadóttir.
Francesco Del Grosso