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T2 Trainspotting

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VOTO: 7.5

I vecchi treni non passano più

Parola d’ordine: dimenticare Trainspotting. Per ricordarlo meglio e metterlo sotto una luce differente. Non c’è paradosso, nell’operazione di sequel messa in piedi da Danny Boyle con la collaborazione del fido John Hodge in sede di sceneggiatura; bensì consapevolezza estrema. Dei tempi che sono mutati inesorabilmente. Di personaggi che sono invecchiati, a due decenni di distanza dal film primigenio. Di una società che non è più da sfidare ma da accettare, cercando di fare buon viso a cattiva sorte. E infine di un cinema che è profondamente cambiato, anche (forse) per merito o colpa del lungometraggio che Boyle realizzò nell’ormai lontano 1996. Ciò che Trainspotting ha fatto, attraverso la confezione accattivante e allucinatoria da trip estremo tutto narrato dal punto di vista della tossicodipendenza dei vari Mark Renton, Sick Boy e Spud, in T2 Trainspotting diventa osservazione del passato al fine di cercare una possibile comprensione di esso. Tutt’altro che un rinnegarlo; ma, al contrario, interrogarlo per chiedere una difficile risposta alla definitiva domanda sui motivi della sopravvivenza di molti e della fine di altri. Una questione che travalica l’alveo personale dei vari protagonisti per farsi foriera di un messaggio sociale e, perché no, politico. Come puntualmente accadeva, vent’anni orsono, con il film originale, sotto la maschera di opera di culto generazionale.
Ritroviamo allora un Mark Renton (efficace Ewan McGregor) ormai quarantaseienne, scomparso nel nulla di Amsterdam dopo il colpo compiuto ai danni del resto del gruppo e desideroso di fare i conti col proprio passato. Esemplare l’incipit registico sulla proiezione violenta in un’altra era, prendendo a paradigma la “clockwork orange” di Johan Cruijff e Robin Van Persie in epoche differenti, calcio meraviglioso che non esisterà più. Spud (impagabile Ewan Bremner), fiaccato da doghe e solitudine, tenta il suicidio. Mentre Simon/Sick Boy (Jonny Lee Miller) si arrabatta in ricattucci sessuali in compagnia di Veronika (Anjela Nedyalkova, unico ma assai rilevante personaggio femminile), ragazza bulgara sveglia quanto basta. Il terribile Begbie (Robert Carlyle) sta invece marcendo in galera, ma medita evasione e vendetta nei confronti di chi lo ha tradito. Il quadro è questo: una piccola porzione di umanità che ha conosciuto la ribellione verso una società cannibalica, l’estasi di una dimensione artificiale creata dall’eroina ed infine, oggi, la disillusione nei confronti di un mondo in cui c’è solo da contemplare macerie e provare a trovare la forza di andare, in qualche modo, avanti. Danny Boyle lo ha capito ed anche l’impostazione registica di T2 Trainspotting funziona non come abbacinante fotografia dell’artificioso bensì da cartina tornasole di un passato “glorioso” sfociato in un presente anonimo. Riflesso sincero della vita reale. Se i toni dunque rimangono in apparenza leggeri e disincantati, in T2 c’è spazio per rimpianto, malinconia e persino commozione, allorquando nella seconda parte la figura di Spud – stavolta autentico protagonista sottotraccia del film – si erge a cantore narrativo (palese omaggio diegetico alla fonte ispiratrice, cioè i romanzi vergati dal deus ex machina Irvine Welsh) di quello che avrebbe potuto verificarsi in passato e più non potrà essere. Perché ripetere più volte i medesimi errori sarebbe, più che sciocco, del tutto auto-lesionista.
Tutto funziona in T2 Trainspotting. Anche lo script in odor di schizofrenia – comunque meno aderente allo stato delle cose, poiché di droga ne circola in misura decisamente minore, nel sequel – e l’epilogo che molti riterranno sin troppo consolatorio. Questo perché nella Edimburgo del film, con i suoi scorci architettonici meravigliosi e le discariche a cielo aperto fisiche e simboliche delle zone popolari, sono destinate a convivere le molte anime che abitano un’opera il cui pregio maggiore risiede proprio nella morale finale. Quale? Nessuna. Almeno palesemente esplicitata. Il Tempo scorre, un baratro sempre più evidente divide la società in benestanti e reietti e l’unica missione possibile, oltre quella di guardare negli occhi i propri affetti, è per l’appunto la pulsione a sopravvivere. Per tutti questi – e molti altri – motivi T2 Trainspotting è un’opera, a suo modo, sorprendente nella sua rassegnazione così ricca di vitalità. Piaccia o meno a chi sperava in una fotocopia ciclostilata del primo film. L’ultima fatica di Boyle è quasi perfetto contraltare di un tempo che fu vent’anni fa e che oggi ricordiamo, anche noi spettatori specchiandoci nel film odierno, con malcelata nostalgia e amarezza. Senza poter fare altro.

Daniele De Angelis

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