La scuola fai da noi
Quante volta nella vita abbiamo sentito e chi sa quante altre volte ancora accadrà che il tempo è denaro. Per una parte più ristretta di persone al mondo quello perso equivale ad una danno di natura economica legato al mancato ingresso nelle proprie casse di capitali, per tutto il resto si tratta di una questione di mera sopravvivenza per affrontare i bisogni del quotidiano. Per questa larghissima fetta di persone il tempo in sé ha un valore che va oltre il Dio Denaro, da spendere per la collettività e per le sue esigenze. In tal senso, T for Taj Mahal, opera terza di Kireet Khurana presentata nel concorso della 18esima edizione del River to River Florence Indian Film Festival, ci mostra come lo scorrere inesorabile delle lancette dell’orologio possa diventare un valore aggiunto da spendere per gli altri e non una corsa sfrenata per riempire tasche e i conti bancari.
L’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta indiano ci conduce per mano in quel di Bajjar, un villaggio a 60 km da Agra, costituito da persone illetterate e privo di una scuola. Lì vive Bansi, un uomo che vuole cambiare le cose per il fratello minore Nanhe e gli altri bambini, e per provare a farlo costruisce il ristorante all’aperto Taj Mahal Dhaba lungo l’autostrada, con una caratteristica unica: piuttosto che far pagare il cibo ai clienti, chiede loro del tempo per insegnare ai bambini del villaggio. Ma quando sembra che questa scuola speciale stia andando bene, compare un ostacolo: un nuovo ristorante a solo 1 km dal Taj Mahal Dhaba, che gli ruba tutti i clienti.
Unendo due punti di forza dell’India, ossia il cibo e il Taj Mahal, il film racconta un problema dei villaggi sperduti di questo grande Paese: l’istruzione elementare. E non è la prima volta che la cinematografia locale (e non solo) usa l’audiovisivo ed un’ambientazione simile per affrontare un tema chiave e delicato come questo. Un modus operandi, questo, che attraverso le immagini e i suoni, indipendentemente dal genere e dal mood utilizzati, si fa portatore a suo modo di messaggi importanti e se vuoi di vere e proprie richieste di aiuto. Da questo punto di vista, T for Taj Mahal non è l’unico caso, basti pensare a My Dear Prime Minister (visto di recente alla 13esima edizione della Festa del Cinema di Roma) con il quale il connazionale Rakeysh Omprakash Mehra ha sollevato una serie di questioni di estrema rilevanza: dalla violenza di genere agli abusi di potere, passando per la mancanza di servizi igienici nelle “abitazioni” arroccate nelle slum alle porte delle grandi città, che costringe le donne a uscire di notte e a vagare nell’oscurità per evacuare, con tutti i rischi che ciò comporta in termini di sicurezza. Da parte sua il cineasta indiano ma di formazione canadese, con la complicità di un nutrito cast guidato da un efficacissimo Subrat Dutta nei panni di Bansi e con qualche tocco di originalità nel plot, coglie l’opportunità al balzo per parlare anche di tematiche più universali come il tentativo di tramutare i sogni in soluzioni concrete, del senso di colpa e di seconde occasioni che ti concede il destino per rimediare ai propri errori.
Per dare forma e sostanza allo script prima e alla sua trasposizione poi Khurana cuce i fili di una favola contemporanea che mescola i colori della commedia e del dramma, con quel tocco di leggerezza che consente all’opera in questione di suonare le corde del cuore e della mente dello spettatore. Narrativamente e drammaturgicamente, T for Taj Mahal ha le sue fragilità ed ingenuità, dovute in primis alla meccanicità di certi switch nei toni del racconto e negli snodi di alcuni raccordi, ma nel complesso è quella leggerezza di fondo che avvolge e accompagna il tutto a fare la differenza e a consentire al fruitore di affezionarsi al film e ai suoi personaggi. Entrambi riescono a strappare più di un sorriso e a donare alla platea momenti di dolcezza, che nel caso degli spettatori più sensibili fanno brillare loro gli occhi e inumidire le guance. Quindi le emozioni vere e sincere non mancano e non fanno fatica a manifestarsi con generosità sullo schermo. Ed è su queste che la pellicola fa affidamento più di ogni altra cosa.
Francesco Del Grosso