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Synecdoche, New York

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VOTO: 9

La parte, il tutto

Che l’umanità brancoli in uno sterminato canyon ontologico dove precipitare in una qualsiasi gola significa ritrovarsi in un mondo affatto dissimile, in una dimensione dove valgono altre leggi e la natura si perverte in incredibili varianti, Charlie Kaufman l’ha teorizzato diffusamente nel suo cursus di sceneggiatore, con molta più ironia di altri nel settore (David Lynch) e patentandosi, per temi e Weltanschauung, come uno dei pochi scrittori per il cinema la cui firma si lascia riconoscere sotto lo scorrimento delle immagini, privilegio assai raro nella storia della settima arte e, oggigiorno, più elitario ancora. Forse solo Guillermo Arriaga ne gode altrettanto.
Se bastava un pertugio condominiale per insinuarsi nel cervello di John Malkovich, Synecdoche, New York non può essere che un coerente sviluppo di una visione della realtà che più frastagliata e spiazzante non si può. Soggetto calzante a un esordio registico che tale non avrebbe dovuto essere, perché a dirigere il film era stato eletto Spike Jonze, poi rinunciatario, ma riservatosi il rango di co-produttore. E forse il cognome di Jonze, dato il recente successo, tra onorificenze e biglietteria, di Her, va considerato tra i fattori eziologici della scelta, all’insegna del meglio tardi che mai, di distribuire nell’intemperante estate italiana una pellicola in concorso a Cannes nel remoto 2008. L’inglorioso trapasso di Philip Seymour Hoffman e la commozione che ha suscitato sono state, senz’altro, una ragione di più, o forse la precipua.
Il grande attore rende, infatti, a Kaufman una delle interpretazioni più sensibili e decadenti del suo repertorio, vestendo i panni lisi di Caden Cotard, regista teatrale in panne. Più sul versante esistenziale che professionale, a dire il vero, se la sua messa in scena di Morte di un commesso viaggiatore è stata accolta con applausi ed elogi. Eppure, la moglie Adele, pittrice miniaturista di nudi baconiani, ma in formato micro, attraversa la loro quotidianità con distrazione, fino all’annuncio della partenza per Berlino insieme all’appiccicosa amica, forse amante, Maria e alla figlioletta Olive. La salute vacilla e Caden, rimbalzato da uno specialista e l’altro, sente approssimarsi la fine senza distinguerne la sagoma (o il male sta solo nella mente?). L’odiosa psicologa è più preoccupata di confezionare best seller editoriali che dei pazienti. Il flirt con la ragazza del botteghino, Hazel, annega nella melanconia di entrambi. A seguire ogni passo del protagonista e spiarne i più reconditi angoli del privato, c’è poi la sinistra presenza dell’annoso Sammy, una probabile personificazione dell’aldilà.
Quando vince il premio MacArthur e un bel po’ di quattrini, Cotard opta per una svolta. Noleggia un teatro dismesso a Manhattan e, con la sua compagnia, decide di inscenare il dramma della sua vita, anzi la sua vita, in un dramma. Che diviene un esercizio mimetico dell’esistenza giù dal palco. Mimetico fino all’omologia. Gli anni passano, la pièce non debutta, le prove continuano indefesse, i personaggi e gli interpreti aumentano, la scenografia si espande a livelli urbani, Caden sposa, per poi separarsene, Claire, l’Adele fittizia. Il doppio finzionale assume un connotato pericolosamente prevaricatore sull’originale. O, in fondo, l’alterità tra i due è già sfumata. In retorica, d’altronde, la sineddoche è la figura in virtù della quale un concetto viene enunciato attraverso un altro intimamente interrelato al primo. Sia la parte per il tutto, che il tutto per la parte. È il proscenio, quindi, a restituire la biografia del regista o è la realtà primaria dello spettacolo a esprimersi, linguisticamente, nella vita di Caden?
Tra reminiscenze di metateatro pirandelliano e con le spalle coperte da un’ubertosa tradizione letteraria che sui travasi  e sulle contaminazioni tra verità e rappresentazione ha impartito lezioni magistrali, Kaufman non inventa molto, ma, nel rispetto di se stesso e della sua dogmatica, manipola suggestioni antiche attraverso un corredo di trovate esilaranti, a una spanna dal genio. Synecdoche, New York è un susseguirsi di scene cult, a partire da quando un’Olive ormai adulta, giacente esanime sul letto di morte (fantasia o realtà? E come distinguerle?), rimprovera al padre la sua assenza e la sua omosessualità (?), mentre l’interprete simultaneo traduce, all’apice della beffa, dal tedesco. Le soluzioni immaginifiche si sprecano: vedere per credere le abitazioni piriche, e alla lunga letali, di Hazel. Senza calcolare l’effetto di spassoso straniamento che genera la pièce nel film: attori cinematografici che interpretano personaggi a loro volta impersonati da interpreti teatrali (che, fuori dai giochi, sono attori cinematografici anch’essi), un guazzabuglio in cui anche Caden ha il suo simulacro. E chi, se non Sammy, la persona che lo conosce meglio?
Nonostante la forte attrattiva dell’insieme, l’eccellenza di Synecdoche, New York, e c’era da aspettarselo, poggia, comunque, sullo script più che sulla regia, piuttosto ordinaria al di là delle prodezze scenografiche. Dalla fotografia del jarmuschiano Frederick Elmes si poteva esigere di più, ma una  degna confezione è sufficiente. Il talento registico di Kaufman si esplica, piuttosto, nella sottile direzione di un cast invidiabile; e se Hoffman rifulge della luce livida della tragedia, la corte femminile che lo attornia arricchisce la partitura di spirito e colori. Formidabili Emily Blunt, Jennifer Jason Leigh, Catherine Keener, Samantha Morton e Michelle Williams, ma, su tutte, troneggia la mitica Dianne Wiest, nello scatto repentino da una di quelle parti da dolce & svampita che l’hanno resa celebre, a un concentrato d’arrivismo con lato maschile in agguato. In senso letterale…
Lungo l’asse tracciato dal Guido Anselmi di Otto e mezzo e dal Sandy Bates di Stardust Memories (e l’ipocondria di Cotard richiama non poco Woody Allen), Kaufman dipinge un ritratto di regista in crisi che dall’autobiografia e dalle paludi interiori succhia nettare poetico. Eppure, quello che appare, inizialmente, come un tragitto di riappropriazione di sé attraverso la rivisitazione ispirata dei propri cumuli di materia esperienziale, si tradurrà, all’ombra di un pessimismo mesto e funereo come un Lied maturo di Schubert, in una completa espropriazione dell’individuo, privato in ultimo, da Millicent-Wiest, anche dello statuto di capo della compagnia. Se burattinaio della sua vita Caden non lo era più da un pezzo, adesso non lo è neanche a teatro. Il malessere fisico e sentimentale avanza irresistibile, mentre nella compagnia la situazione si aggroviglia in una matassa di incomprensioni e sventure non più sbrogliabile. Ed è proprio scivolando progressivamente verso una morte che da anni cova dentro di sé, Caden, perdute volontà, indipendenza e sinderesi, divenuto ciò che gli altri hanno prescritto (perfino omosessuale!), scopre inconfutabilmente che il mito dell’unicità e irripetibilità di ogni essere umano è soltanto una pia fola, mentre al mondo siamo tutti interscambiabili, manifestazioni più o meno plateali di un dolore universale e pervasivo, elettroni di quest’atomo opaco del Male che è la Terra. Per di più caduci. Ed effimeri. Sineddochi di un’ingiustizia cosmica e parti di un tutto che, in noi, esprime se stesso.

Dario Gigante

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