Oltre la legge, il deserto
Nell’arida Australia ottocentesca è già da molti anni che il territorio è stato conquistato dai coloni inglesi. Gli aborigeni sono infatti costretti a emigrare o a condividere il proprio spazio con i nuovi arrivati, che non perdono tempo a stabilire chi davvero comanda questo paese. La storia insegna che gli autoctoni sono sempre destinati in riserve lontane dalla “civiltà” costituita, o, nei casi più benevoli, a condividere usi e costumi abbandonando così le proprie tradizioni. Sam raffigura questa trasformazione culturale, con l’abbigliamento (cappello e camicia) che rispecchia la contaminazione ormai avviata, nonostante la pelle scura e la fisionomia immutata. L’uomo vive in una casa abitata da Fred, l’unico del paese a trattarlo in maniera dignitosa. L’equilibrio formatosi tra queste due comunità inizia a sgretolarsi con la presenza di Harry, giunto dal fronte e che vede gli abitanti del vecchio mondo come delle bestie da usare a proprio piacimento. Non può esistere, secondo lui, il concetto di eguaglianza delle condizioni tra i bianchi e i cosiddetti “selvaggi”, considerati al pari delle bestie. Un evento spiacevole, che coinvolge l’ex soldato e la moglie di Sam, Lizzie, costringerà proprio l’aborigeno a compiere una scelta drastica, che segnerà per sempre la sua vita.
Sweet Country, il film di Warwick Thornton presentato in Concorso alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, trasporta l’iconologia del western americano in un terreno inedito come quello australiano. Il contesto del tempo non sembra essere mutato rispetto ai casi di cronaca contemporanea, sia che si tratti dei casi di razzismo su strada, con l’emergere di movimenti nazionalistici di estrema destra, sia che si parli di fanatici da tastiera che inondano il web di commenti brutali e dettati dal proprio istinto anziché dall’intelletto. Il genere aiuta a trasmettere una sensazione di graduale pessimismo, che comincia a emergere quando Harry, il cittadino modello dell’antropocentrismo occidentale, chiede a Fred dove si possono trovare gli schiavi da poter assoldare per lavori usuranti. L’uomo rifiuta, affermando che qui, in questa comunità, esiste la democrazia. Sì sa che, abbattendo un muro, la società cerca sempre un’alternativa per distinguere un individuo da un altro. Si è partiti dalla pelle, dal ceto di appartenenza, fino a giungere alla condizione socio-economica. Nel lungometraggio di Thornton è presente una quiete condivisa da entrambe le parti, che garantisce stabilità e respiro senza incappare in casi di violenza che portano solo sangue invece che soluzioni.
Con il tempo emergono, come già è accaduto in innumerevoli film di finzione e di denuncia, le contraddizioni del nostro vivere. La consuetudine (soggettiva) e la legge (oggettiva) dovrebbero bilanciarsi più verso la seconda scelta, che è quella che porta equità e giustizia secondo le regole che uno Stato democratico offre al cittadino. La capacità del regista, oltre a compiere un’analisi critica fine in merito alla regressione che ci sta riportando in un periodo delicato di forti diseguaglianze, sta nel illustrare come sia lo stesso essere umano, in base alle proprie esperienze e conoscenze, a porre dei paletti di civiltà in modo che errori come quelli descritti nel film non vengono più commessi. La mancanza di un tribunale ordinario, una sede preposta al raggiungimento della verità (ipotetica), è segno della presenza di una comunità primitiva che vive in base alle usanze create con iniquità. Che siano indigeni o portatori di cultura non fa alcuna differenza.
Sweet Country è un’opera dal forte carattere estetico, con classiche sequenze riprese dai cult del genere western rafforzate da un contenuto che volge lo sguardo verso il presente. La storia, anziché toccare dei punti già visti in precedenti lungometraggi sullo schiavismo, poteva approfondire maggiormente alcune tematiche inerenti alla cultura locale, ma rimane comunque un’opera cinematografica potente sia nel linguaggio che nel tratto narrativo.
Riccardo Lo Re