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Suburbicon

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VOTO: 7.5

Tra umorismo coeniano e impegno politico

Era il 2005 quando George Clooney, già regista di Confessioni di una mente pericolosa (2002) e Good Night, and Good Luck (2005), acquistò i diritti per dirigere Suburbicon, sceneggiatura di mano coeniana e risalente al 1986. E già dall’inizio del film non è difficile intuire perché Clooney abbia scelto proprio questo momento storico per metterla in scena: agli albori degli anni ’60, un portalettere consegna la posta ad una donna di colore, rivolgendosi a lei come alla donna di servizio della destinataria. Quando apprenderà che la sua interlocutrice e la persona a cui deve consegnare quelle scartoffie sono la stessa persona, rimarrà di sasso e abbozzerà un sorriso imbarazzato. Una famiglia di colore nella decorosa “Suburbicon”? In quella cittadina recalcitrante ad accettare qualsiasi cosa possa turbarne la tranquillità? La novità sconvolgente si diffonde di vicino in vicino, di casa in casa, e non trascorre molto tempo perché l’indignazione aggressiva ceda il posto alla protesta vera e propria, così da rendere invivibile la quotidianità dei nuovi arrivati. Ma non sono le vicende della famiglia di colore ciò di cui parla principalmente Suburbicon. Il focus della storia si sposta immediatamente sui Gardner, una delle tante famiglie (superficialmente) morigerate presenti nella cittadina, e composta dalle gemelle Margaret e Rose (entrambe interpretate da Julianne Moore, nelle versioni bionda e bruna), Lodge (Matt Damon) e Nicky (Noah Jupe), figlio piccolo di Rose e Lodge. Una notte, due loschi individui fanno irruzione nella casa dei Gardner, ma quella che in un primo momento poteva sembrarci una delle tante rapine finite male, si rivelerà essere stato molto di più, una manovra in grado di fomentare una lunga serie di violenze motivate da moventi vendicativi o ripatori. Quando furono annunciate le riprese di Suburbicon, ci si chiedeva se e in quale misura lo script dei Coen avrebbe influito sul prodotto finito: considerando che la loro firma è tra quanto di più originale e riconoscibile oggi il cinema possa offrire, era ragionevole aspettarsi un film in linea con l’umorismo grottesco e cinico che da sempre contraddistingue i loro lavori. E Suburbicon, in parte, è tutto questo. Ma solo in parte. Narrativamente affine a Burn After Reading (2008) e A Serious Man (2009), il sesto lungometraggio di George Clooney è un susseguirsi di battute taglienti e argute, pronunciate da personaggi mai completamente coscienti della gravità di ciò che stanno compiendo o in cui si trovano comunque ad essere coinvolti (in questo senso, i due banditi, più tonti che minacciosi, sono di stampo al cento per cento coeniano). Nonostante simili congruenze, l’assenza della macchina da presa, oltre che della penna, nelle mani dei Coen, rimane facilmente avvertibile, e per quanto le battute siano brillanti non osano mai spingersi oltre un certo limite (nel superamento del quale, invece, si è spesso distinto il talento coeniano). La trama a forti tinte politiche, poi, con le vessazioni che la nuova famiglia si trova costretta a subire, è un forte contributo della regia di Clooney, che in certe scene è fin troppo rigido nel contrapporre le famiglie bianche fintamente buone a quella nera ingiustamente oppressa (anche dai poteri forti: chiaro il parallelismo con le recenti iniziative di Donald Trump). Nel complesso, comunque, il lavoro di sceneggiatura e quello di regia collaborano con risultati sorprendenti, anche grazie ad un cast superbo: meritano una menzione le due scene che vedono un impeccabile Oscar Isaac nei panni di un agente assicurativo non proprio tradizionale. Peccato per il finale, il quale, protendendosi ad un futuro all’insegna della speranza e della tolleranza, ha un che di moraleggiante che stride con il resto del film, caratterizzato dalla totale assenza di didascalismi.

Ginevra Ghini

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