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Storie sospese

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VOTO: 4.5

Vite appese a un filo

Scelta come evento di pre-apertura delle Giornate degli Autori alla 72esima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, la terza fatica dietro la macchina da presa di Stefano Chiantini, dopo L’amore non basta e Isole, dal Lido sbarca subito nelle sale nostrane con la rediviva Pablo a partire dal 3 settembre. E iniziamo con il dire che il suo non sarà affatto un percorso facile perché si tratta di una prova decisamente sottotono e incolore, che vanifica quanto di buono fatto in precedenza dal regista abruzzese sulla breve e sulla lunga distanza. Le cause vanno ricercate alla base, ossia in quella terra franosa dove si è deciso di andare a piantare le radice di uno script povero di intuizioni drammaturgiche da una parte e ricco di buoni propositi tematici vanificati, ma soprattutto disattesi, dall’altra.
È questo l’insormontabile agglomerato di scogli contro il quale si vanno a infrangere le intenzioni e le motivazioni del cineasta di Avezzano. Il suddetto ossimoro determina una serie di conflitti interni nel racconto che si esauriscono in una bolla di sapone che, purtroppo, lascia poco e niente nella mente dello spettatore di turno. Poco in primis dal punto di vista delle emozioni, che appaiono cristallizzate e trattenute da una scrittura che fa fatica a catturare il fruitore e a innescare in esso il processo di catarsi empatica nei confronti della vicenda narrata e dei personaggi che la animano. Ci si ritrova di conseguenza a fare i conti con un racconto farraginoso, che arranca stancamente – anche in termini di ritmo – verso un epilogo che mette a nudo tutte le incertezze di un film che, nel porsi una serie di obiettivi, finisce però con lo sfiorarli appena. Si assiste così a un concentrato di presupposti e argomentazioni nobili che si perdono lungo l’impervia e frastagliata timeline, non priva di passaggi a vuoto e futili digressioni.
Al di là del porre l’accento su un lavoro rischioso, che in molti ignorano, come quello dei rocciatori, chiamati a mettere in sicurezza le pareti delle montagne e dei dirupi da crolli, cadute e frane, Storie sospese infatti non fa altro che sollevare questioni importanti, alcune delle quali centrali e strettamente attuali, senza sviscerarle come avrebbero richiesto e meritato. Dietro la drammatica vicenda narrata da Chiantini, ambientata in un paesino in Abruzzo, ma ispirata a quella tragica che affligge la comunità emiliana di Ripoli, c’è, vuoi o non vuoi, un riferimento alla TAV e a quanto ancora continua ad accadere in Val di Susa, con tanto di proteste, scontri e sabotaggi messi in atto dai movimenti nati per impedire il proseguire dei cantieri della tanto contestata linea ferroviaria Torino-Lione. Le proporzioni delle proteste non sono le stesse, a differenza del dramma di una cittadina che lentamente sta crollando a pezzi a causa degli smottamenti provocati dai lavori per la creazione di un’importante arteria autostradale scavata nella roccia della montagna antistante. I pochi rimasti si battono, ma come al solito i Poteri Forti e gli interessi politici ed economici che vi gravitano intorno hanno ragione sui diritti dei più deboli. Storie sospese racconta di una terra martoriata come tante altre in Italia e della sua gente. Decide pertanto di puntare il dito, ma lo fa troppo debolmente, passando attraverso un “film verità” che, zoppicando, prova a scuotere le coscienze dei molti vestendosi da semi-inchiesta. Accende i fari su un caso per indicarne tanti altri analoghi, ma il risultato per quanto concerne l’impatto che l’opera ha sulla platea è molto lontano dall’essere devastante e incisivo.
Nel mezzo un uomo, Thomas, rocciatore esperto incaricato di effettuare insieme a un giovane geologo rilievi nel Paese che si sta sbriciolando sotto i loro occhi, un uomo diviso fra dubbi esistenziali e morali, fra sensi di colpa per la perdita di un collega e la solitudine mista all’incapacità di amare svisceratamente la propria vita famiglia. Il suo conflitto interiore e il mestiere che ha scelto diventano insieme metafore di una condizione di fragilità, quella che avvolge una personalità che da un momento all’altro può andare in frantumi. Della serie anche la roccia si spacca. Giallini si cala nei panni del protagonista con la solita dedizione, ma le secche drammaturgiche sulle quali si trova a camminare rendono il suo passo e la sua interpretazione discontinui e incerti come poche altre volte nell’ultimo decennio. Si sforza in tutti i modi di rendere il più possibile sullo schermo la scissione che attraversa Thomas, ma il disegno appena abbozzato del suo personaggio, così come quelli degli altri che lo circondano (una su tutte la maestrina locale interpretata da una spenta Maya Sansa), glielo impedisce. Il risultato è un cast che lavora con il freno tirato, guidato da un Chiantini che registicamente appare assente sia in termini di direzione degli attori che per quanto concerne l’impegno tecnico-stilistico.

Francesco Del Grosso

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