Non smettere mai di cercare
La Settima Arte si è fatta carico, lo fa tuttora e probabilmente continuerà a farlo in futuro, della responsabilità di andare a togliere la polvere da sotto il tappeto, laddove eventi criminosi e pagine nere della storia sono stati troppo a lungo sepolti e nascosti agli occhi della gente. Miroslav Terzić con Stitches quel tappeto di silenzio e omertà lo ha con coraggio sollevato quanto basta per fare luce su una questione spinosa sulla quale si è preferito tacere per motivi che vi lasciamo immaginare. Tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, all’alba del conflitto che ha lacerato la Jugoslavia, 500 famiglie hanno visto scomparire nel nulla i propri neonati dati per morti durante il parto quando invece erano vivi e vegeti. Lo scopo era di strapparli ai genitori biologici per rivenderli o darli in affidamento ad altre famiglie. Ed è proprio ad uno di questi casi si è ispirato il cineasta serbo per la sua opera seconda, presentata nel concorso del 20° Festival del Cinema Europeo di Lecce dopo l’anteprima mondiale nella sezione “Panorama” della Berlinale 2019.
Stitches è ambientato nella Belgrado dei nostri giorni. Sono trascorsi 18 anni da quando la Ana, una giovane sarta, era stata freddamente informata della morte improvvisa del figlio appena nato. La donna è ancora convinta che il bambino, in realtà, le sia stato portato via. Bollata dagli altri come paranoica, ma con la determinazione tipica di una madre, raccoglie tutte le sue forze per l’ultima battaglia contro la polizia, la burocrazia ospedaliera e la sua stessa famiglia, alla ricerca della verità.
Il film porta sul grande schermo un dramma privato che l’autore ha estrapolato da quella che a tutti gli effetti è stata una tragedia collettiva che ha segnato in maniera indelebile moltissime famiglie. Quella di Ana è quindi una goccia d’acqua in un “oceano” di dolore e sofferenza, un’odissea umana che ha nel DNA drammaturgico l’opera di denuncia e come baricentro tematico la maternità negata. È da questi due elementi e da come il regista è riuscito a trasporli attraverso una venatura mistery che bisogna partire per giudicare il lavoro di Terzić. A conti fatti, il cineasta ha saputo fare coesistere due componenti dal peso specifico non indifferente, che il più delle volte in progetti analoghi ha visto l’uno sovrastare o schiacciare l’altro. In Stitches, così come nel potentissimo e duro Muffa di Ali Aydin nel quale si raccontano dinamiche comuni, l’equilibrio e la misura che caratterizzano tanto la scrittura quanto la sua messa in quadro hanno fatto in modo che ciò accadesse. Se non fosse per qualche reiterazione narrativa nella parte centrale della timeline, l’esito sarebbe stato ancora più incisivo di quanto già è in termini di capacità perforante. Il film scuote le coscienze ma senza dovere ricorrere a una modalità di racconto e a una messa in scena aggressive. E sta qui la giusta misura della quale accennavamo in precedenza tra dramma e tragedia, tra sfera intima e pubblica. La stessa misura che possiamo ritrovare anche nel lavoro davanti la macchina da presa, dove a farsi carico di un personaggio complesso come quello di Ana troviamo una Snezana Bogdanovic bravissima nel rendere il tormento interiore e le conseguenti manifestazioni di rabbia della protagonista. In tal senso, scene come quelle del faccia a faccia con la dottoressa che l’aveva assistita durante il parto o dell’incontro con il nuovo capo della polizia, entrambi collusi, certificano quanto detto.
Francesco Del Grosso