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Spaceman

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VOTO: 7

Così lontani, così vicini

Dimenticate la fantascienza come la conobbero i nostri padri: mostri che distruggevano il nostro povero mondo, magari in un bianco e nero che ancora profuma di nostalgia. Di quei fantasmi che agitavano inconsci del tutto “vergini”. Ora siamo diventati grandi, assieme al genere di riferimento. 2001 – Odissea nello spazio (1968), Solaris (1972), Interstellar (2014). Tutti titoli, puramente rappresentativi, che hanno condotto per mano lo spettatore verso vette inesplorate, dove la fantascienza si è magnificamente (con)fusa con la filosofia, divenendo strumento di conoscenza sia interiore che esteriore.
A tale sottogenere – o forse “sopragenere”, anche se non suona benissimo – è possibile ora aggiungere anche Spaceman, presentato con esiti contrastanti alla Berlinale 2024 e ora fruibile su Netflix. Tratto dal romanzo “Il cosmonauta” dello scrittore ceco Jaroslav Kalfar e adattato da Colby Day, Spaceman mette in scena la vicenda personale dell’astrofisico Jakub Procházka, impegnato in una lunga e delicata missione spaziale in solitaria, dovendo egli studiare gli effetti del passaggio di una cometa tra la Terra e Venere. Un uomo che il plot coglie in un momento di crisi esistenziale nello spazio profondo, tra un matrimonio che sta cadendo in pezzi ed un Complesso di Edipo assai difficile da accantonare, fattore che in fondo è stata la spinta decisiva per compiere questa missione. Cercando Jakub di diventare un eroe tipicamente del nostro tempo, tra spot invadenti e pressioni superiori. Finché, a bordo dell’astronave, non compare un gigantesco ragno alieno perfettamente senziente, incaricato (dice lui) di studiare in profondità la razza umana. Allucinazione da solitudine oppure realtà?
La regia dello svedese Johan Renck – tanta televisione, videoclip e spot alle spalle, in primis la direzione di tutti gli episodi dell’ottima serie tv Chernobyl (2019) – tra panorami mozzafiato nello spazio e bellissimi paesaggi terrestri dimostra una certa abilità nel mettere in scena il malessere esistenziale del protagonista, trasformando il rapporto con il ragno in una sorta di lunga seduta psicoanalitica alla ricerca del profondo senso del vivere. Un significato ambizioso che il lungometraggio insegue con ostinata pervicacia, rischiando di generare un sentimento di rifiuto da parte di quegli spettatori che si attenderebbero un minimo di azione. Che in verità fa capolino solamente nel finale, per restituire un minimo di ordine alla situazione nonché riportare le cose al punto di partenza, pronte per un nuovo inizio. A ricordare e citare, sia pure per vie molto traverse, l’epilogo del capolavoro kubrickiano prima citato.
In realtà dove Spaceman diviene lungometraggio ricco di suggestioni è nella descrizione implacabile della solitudine e nell’azzeramento delle distanze siderali. Il fantasma della figura paterna – un filosovietico che, nel corso del tempo, si è macchiato di orribili reati verso i connazionali all’epoca cecoslovacchi – acuisce fino all’estremo il disagio dell’essere soli, mentre Jakub e la moglie Lenka (peraltro di nuovo incinta dopo un aborto spontaneo) compiono un percorso parallelo di conoscenza personale e reciproca che li condurrà, inevitabilmente, ad una nuova conoscenza di sé. La fantascienza, dopo aver girovagato nello spazio fisico insondabile, insomma torna a casa. In quello spazio tuttora indefinito e da comprendere appieno che è l’animo umano. Un messaggio semplice per un’opera che si carica, forse un po’ artificiosamente, di innumerevoli sottotesti psicologici per poi ricondurli alle esigenze primarie di ogni essere umano: vivere, amare e specchiarsi nelle nuove generazioni.
Al fine di veicolare al meglio questo condivisibile “messaggio”, Renck si affida in toto – e saggiamente – anche al suo cast. Con in primo piano un Adam Sandler (Jakub) ormai dedito in esclusiva a ruoli drammatici e introspettivi capaci di affermare il proprio, innegabile, talento ed una Carey Mulligan (sua moglie Lenka) perfetto contraltare assetato di vita.
Con tutti i limiti di un lungometraggio quasi esclusivamente dialogato – e non sempre all’altezza – possiamo però affermare senza esitazioni che Spaceman lascia, nello spettatore in grado di arrivare alla fine del percorso, tracce di profonda emozione.

Daniele De Angelis

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