Mentre il mondo cade a pezzi
Programma alla mano si può notare che ben tre film dei nove complessivi selezionati dalla direzione artistica del Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina per il concorso “Finestre sul Mondo” della 33esima edizione provengono dalla Berlinale 2024, laddove hanno avuto la loro première mondiale lo scorso febbraio. Ed è da lì che Annamaria Gallone e Alessandra Speciale sono andate a pescare accuratamente per comporre la rosa dei lungometraggi presentati in anteprima italiana alla kermesse milanese. Uno di questi è Some Rain Must Fall, il film vincitore della menzione speciale della giuria del concorso “Encounters” del festival tedesco.
Si tratta dell’opera prima di Qiu Yang, regista conosciuto e molto apprezzato dagli addetti ai lavori per le sue precedenti prove sulla breve distanza che gli sono valsi importanti riconoscimenti nel circuito festivaliero internazionale, tra cui la Palma d’Oro per il miglior cortometraggio a Cannes 2017 con A Gentle Night. In quegli short si erano già intraviste tutta una serie di scelte narrative e visive delle quali parleremo più avanti e che ritroveremo puntualmente nel suo film d’esordio che racconta la storia di una casalinga di mezza età di nome Cai, appartenente alla nuova classe media cinese “in ascesa”. Sta divorziando dal marito, il freddo uomo d’affari Ding, e si prende cura della suocera malata. Durante una delle partite di basket di sua figlia, ferisce inavvertitamente la nonna di un compagno di classe della ragazza, che finisce in ospedale. Questo evento farà da catalizzatore della sua perdita di controllo e da leit motiv del racconto di Some Rain Must Fall, un dramma intimo di una donna che ha perso la cognizione di chi è e di chi vuole essere e per questo costretta a confrontarsi con una vita che va in pezzi e il desiderio di cambiamento. Un incidente banale quanto sfortunato inizia lentamente a rimuovere gli strati del suo passato e gli aspetti nascosti della sua personalità, portandoli in questo modo all’attenzione di uno spettatore tenuto sino a quel momento all’oscuro al cospetto di un vero e proprio (s)oggetto misterioso, sconosciuto e non meglio identificato. L’autore inizia a delineare i tratti del personaggio di Cai e la sua one-line attraverso le dinamiche familiari e le relazioni sociali. Così facendo e con lo scorrere dei minuti l’identikit della protagonista, efficacemente interpretata da Yu Aier, viene un tassello alla volta rivelato, restando tuttavia volutamente distante emotivamente dal fruitore.
Tale distanza è parte integrante del modus operandi e della poetica del cineasta di Changzhou, dettate da quelle scelte di scrittura e di regia delle quali si accennava all’inizio della recensione. Si parte da una storia che mantiene la sua aurea criptica, immersa in un’atmosfera pacata, sottilmente ambigua e a tratti misteriosa, che sembra dire tanto ma non conferma nulla, lasciando allo spettatore il compito di ipotizzare e interpretare la maggior parte degli aspetti della narrazione. Alcuni di essi sono talmente sottili e impercettibili da non consentire a chi li intravede di essere sicuro al 100% di ciò che ha visto come ad esempio lo scambio di sguardi e l’ambigua vicinanza affettiva tra Cai e la governante della suocera che potrebbe – e sottolineiamo potrebbe – suggerire l’esistenza di un rapporto sentimentale tra le due donne. Come questo ce ne sono tanti altri disseminati sulla timeline di un’opera che proprio in virtù delle scelte drammaturgiche e stilistiche è tagliata su misura per gli amanti di un cinema impegnativo, orgogliosamente e ostinatamente autoriale e non allineato.
Il regista cinese infatti sfugge a un’impostazione predefinita per aderire a una cifra stilistica in cui la forma riveste lo stesso peso specifico del contenuto, senza però fagocitarlo con un’estetica invasiva e fine a se stessa. Le due componenti si alimentano a vicenda e dipendono l’una dall’altra in uno scambio continuo. I tempi lunghi che a una parte del pubblico potrebbe avvertire come morti fanno invece parte del modus operandi di un autore che non segue le direttive classiche tanto nel raccontare quanto nel mostrare. Ciò lo ha portato a incasellare il tutto in un 4:3 soffocante immerso in una fotografia satura dalle tinte verdeggianti e dai neon accecanti, a decentrare e inquadrare tutti i personaggi solo di rado frontalmente, tenendoli distanti dalla cinepresa sempre fissa o panoramica, tagliandoli con superfici, cornici di porte o finestre in moda da evitare qualsiasi contatto emotivo e coinvolgimento tra il pubblico, Cai e le altre figure.
Francesco Del Grosso