Il prezzo della sopravvivenza
Dopo anni di varie mortificazioni e avvilimenti, con Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive, 2013) di Jim Jarmusch il genere vampiresco si riappropria finalmente di una sua dignità divenendo l’oggetto d’analisi e riflessione di un regista tanto audace quanto consapevole delle sue scelte, in misura tale da riuscire a giostrarsi magnificamente tra i risvolti di questa sua visionaria creazione, scongiurando i pericoli della diffidenza e della perplessità.
Adam e Eva sono due amanti secolari, i cui nomi dall’evidente reminescenza biblica non son sufficienti a collocarli in un una situazione placidamente edenica, e soprattutto non son funzionali a vestirli dei ruoli peccaminosi propri della coppia ancestrale. Adam e Eva sembrano essere piuttosto le uniche creature, assieme agli esigui loro simili ancora in circolazione,esenti dalle colpe peculiari della nostra modernità: l’insoddisfazione, la superficialità d’approccio, gli atteggiamenti sbrigativi, l’approssimazione che orchestra oramai qualsiasi relazione, tanto interumana quanto culturale.
Per il fatto di aver vissuto secondo dettami temporalmente dilatati, gli eterni amanti sono tristemente consapevoli della gravità dei nostri atteggiamenti trascuranti; per il fatto di intrattenere un rapporto fusionale e simbiotico con la natura, ne odono, ne sentono affettivamente il lamento e la disperata litania.
“Zombie” è l’appellativo con il quale Adam e Eva designano la nostra razza umana e caduca, ma il disprezzo che lo motiva non è da riferire al nostro destino temporalmente scandito, o alla corruttibilità della nostra unità psicofisica: siamo zombie in quanto consapevoli rappresentanti di un’ottica del mordi e fuggi, del fagocitare gli aspetti fenomenologici della cultura (libri,musica,arte) senza garanzia di assimilazione, d’elaborazione e d’interiorizzazione.
Lo spettatore,se possiede una soglia d’attivazione sufficientemente bassa dei meccanismi di colpa,dovrebbe sentirsi, se non l’unico responsabile, quanto meno un fondamentale fattore causale della malinconia e dei pensieri suicidi e autodistruttivi che albergano nella mente di Adam: tra i due sembrerebbe quest’ultimo quello ad aver maggiormente empatizzato con l’irreversibile decadenza del nostro pianeta. Due momenti della pellicola risultano particolarmente allarmanti ed efficaci nella loro malefica lucidità: la conversazione sullo sfruttamento dei giacimenti di petrolio (“Siamo ancora alle guerre per il petrolio o sono già cominciate quelle per l’acqua?”), conclusa con una tragica constatazione sulla nostra abitualmente ritardata presa di coscienza; e la sequenza più memorabile di questo lavoro, anche in quanto a movimenti di camera e montaggio. Ci riferiamo a quella nella quale Jarmush ci mostra degli ariosi e affrescati soffiti a volte (appartenenti al fu Michigan Theatre), descritti e lodati dalla voce fuori campo di Adam, coinvolta e ispirata; per poi abbassare bruscamente la cinepresa e scaraventarci in pieno volto l’avvilente scenario di un parcheggio, ambiente spettrale nell’altrettanto spettrale Detroit. Da meraviglioso e pittoresco teatro qual’era, ad angusto e soffocante parcheggio: ecco come l’umanità sta riducendo il suo stesso pianeta.
Anche le due città che si alternano nella pellicola sono a loro modo presenze protagoniste e fondamentali alla riuscita del prodotto: un’Algeri immersa in un’eterna calda notte orientale, le cui panoramiche sono accompagnante da musiche ipnotiche e arabeggianti, e nella quale il fascino e la materna leggiadria di Eva possono esplicitare al meglio le loro possibilità; una Detroit scheletrica e fantasmatica, pietrificata e immobile quanto la postura con cui Adam si lascia dimessamente andare sul suo rosseggiante divano, sollevandosi solo per comporre musiche catartiche che nessuno ascolterà.
Probabilmente qualche spettatore si sarebbe aspettato una maggiore coerenza narrativa, senza quegli intermezzi ironici e leggeri che si insinuano repentini nella composizione, senza tener conto che aderendo ad una tale posizione si dimostra di non aver compreso adeguatamente i tratti peculiari di questo regista, il quale anche in un’opera tematizzante, un viaggio iniziatico verso la morte (Dead Man, 1995), era stato in grado di inserire elementi disorientanti rispetto alla tradizionale concezione di cinema western, offrendocene un’interessante interpretazione, mai un tradimento.
Grazie anche a delle interpretazioni attoriali memorabili (in particolar modo quella di Tilda Swinton, che ci offre una dimostrazione di eleganza e raffinatezza raramente esperibili), Adam e Eva ci mostrano un paradigma al quale ciascuno di noi, essere umano calato negli irrefrenabili ritmi del progresso, potrebbe sforzarsi di attenersi:accettare e usufruire delle possibilità offerteci dalla tecnica e dalle sue innovazioni (i due amanti possiedono oggetti targati Apple, si procurano sangue puro prelevato e archiviato all’interno di strutture ospedaliere, guidano auto non esattamente risalenti ai secoli trascorsi),ma senza lasciarci risucchiare dal loro vortice inibitore, che rischia di inficiare le nostre capacità di ascolto, di paziente lettura, di ripensamento. Tutte esperienze che richiedono tempo e sacrificio per essere adeguatamente fronteggiate.
Così, tra richiami e citazioni letterarie più o meno esplicite (Goethe, Byron, Bach, Schubert, Shakespeare),è una sola la forma che alla fine sembra incarnare la frontiera, il muro oltre il quale anche la sapienza secolare e temporalmente giustapposta dei vampiri pare arrestarsi:ed è quella di un misterioso diamante nel cielo, della grandezza di un pianeta, che emette la musica di un gong gigante, come racconta Eva durante un viaggio in macchina. Come vorrei sentirla, sospira Adam. E forse è proprio questo uno dei motivi per i quali si accetta di continuare a vivere:perché c’è ancora qualcosa di inesplorato e ovattato,e alla cui futura rivelazione mai acconsentiremmo di non essere presenti.
Ginevra Ghini