L’inevitabile
È un giorno qualunque nella provincia bosniaca dalla quale Aida cerca di emanciparsi. Dopo la rottura con il fidanzato, il violento Kerim, inizia una relazione con un uomo più anziano. Nel frattempo Kerim, inasprito dalla fine della relazione, trascorre del tempo con il giovane e ingenuo amico Suad. Irrequieti e intrappolati in una città troppo piccola, devono trovare qualcosa da fare. Aida incontra Kerim per discutere e risolvere la situazione. E mentre la donna pensa che presto sarà tutto finito, dovrà invece affrontare l’inevitabile. In So She Doesn’t Live l’inevitabile è quello che quotidianamente e incessantemente si legge sulle pagine di cronaca nera o del quale si parla nei Tg e nelle trasmissioni televisive. Quel qualcosa sono le violenze di genere e i delitti che vengono consumati dentro e fuori le mura domestiche, crimini passionali o dettati dalla gelosia che hanno portato e continuano a portare alla morte di donne a tutte le latitudini. Un vero e proprio “bollettino di guerra” che viene aggiornato giornalmente, nel quale è entrata a fare parte anche la ventitreenne Arnela, il cui tragico destino è stato raccontato nel film di Faruk Lončarević.
La sua terza fatica dietro la macchina da presa, in anteprima internazionale alla 32esima edizione del Trieste Film Festival, si basa proprio su quello che è ad oggi è considerato il più efferato caso di omicidio della Bosnia post-bellica. Ovviamente i nomi dati ai personaggi coinvolti sono stati cambiati, ma la sostanza di quanto accaduto, le fasi che hanno portato all’uccisione della donna e soprattutto il modo in cui è avvenuta non è cambiata di una virgola. In So She Doesn’t Live, infatti, ha voluto attenersi ai fatti, limitandosi a una fredda e distaccata cronaca degli eventi con il chiaro intento di restituire sullo schermo qualcosa che andasse molto al di là del crimine passionale. A muovere la mano dei carnefici è stata la violenza e l’odio, ma soprattutto il puro istinto di distruzione di due giovani uomini che vivevano in una terra dove l’odore della morte era (ed è) ancora fortissimo. Geograficamente siamo a una manciata di km da Srebrenica, laddove anni prima si è consumato un genocidio di oltre 8 000 musulmani bosniaci, il cui ricordo è vivo più che mai nelle menti dei sopravvissuti e delle nuove generazioni come ci ricorda puntualmente la radio nell’epilogo del film. Motivo per cui la pellicola di Lončarević si è fatta carico di una responsabilità molto grande, quella di aver rievocato un fatto di sangue particolarmente significativo che ha gettato sale su una ferita profonda ancora aperta.
Per restituire la brutalità di quel delitto, il cineasta bosniaco non usa mezzi termini, ma con lo spirito di una camera-stylo firma una “radiografia” dell’evento delittuoso con un approccio tecnico della messa in quadro che procede in simbiosi con quello narrativo e drammaturgico. Lo fa narrando i fatti attraverso gli highlights principali che dai giorni immediatamente precedenti ci portano sino al ritrovamento del cadavere della donna e all’arresto dei responsabili. Nel mezzo i momenti dell’omicidio e le tappe d’avvicinamento mostrate attraverso i punti di vista della vittima e dei carnefici. Il tutto in maniera asciutta, asettica, fredda, cruda, senza fronzoli e da una distanza siderale della macchina da presa dai personaggi che rende le scene gelide come delle spesse lastre di ghiaccio.
Ed ecco qui materializzarsi sullo schermo una successione regolare di quadri fissi dai tempi dilatati (alcuni dei quali spinti sino al limite come gli undici interminabili minuti di piano sequenza in campo lungo che mostrano la vittima trascinarsi lungo la riva del fiume), che ricostruiscono le dinamiche senza alcuna implicazione emotiva, approfondimento dei personaggi. Una scelta senza alcun dubbio funzionale e in linea con la mission dell’autore, quella di consegnare allo spettatore tutta l’ingiustificata violenza del delitto in questione. Purtroppo per lui non condivisibile, almeno da noi e probabilmente da tanti altri fruitori, poiché So She Doesn’t Live è un film e in quanto tale deve differenziarsi da quella marea di ricostruzioni cronachistiche che si affacciano nei palinsesti della tv del dolore. Qui ci sono dei personaggi, non solo dei fatti da rievocare più o meno fedelmente, in quanto tali vanno scavati e messi a nudo per provare in qualche modo a restituirne l’universo interiore che muove le rispettive azioni, anche quando queste sono inspiegabili e atroci. Dietro c’è sempre una storia e qui non vi è traccia alcuna, con le figure coinvolte, tra l’altro realmente esistite, del quale non viene restituito nemmeno un accenno di identikit. Di conseguenza si arriva lentamente da A a Z senza quelle tappe intermedie in cui lo spettatore avrebbe potuto in qualche modo entrare in contatto con i personaggi, con quello che provano e hanno provato prima, dopo e durante il punto di non ritorno. Ci riferiamo ad esempio alla natura del rapporto di dipendenza che Suad ha nei confronti di Kerim, che lo porterà a compiere materialmente il delitto.
Ciò che resta è solamente la drammatica vicenda di una donna che in cuor suo nutre l’illusione di essere padrona del proprio destino, un’illusione che resterà tale a causa di due uomini che in una notte come tante, nel mezzo di un bosco, hanno deciso di massacrarla per il solo gusto di farlo. Sta in questa gigantesca assenza il limite più grande di So She Doesn’t Live.
Francesco Del Grosso