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Smetto quando voglio – Masterclass

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VOTO: 8

Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno!

Era il 2014 quando si brindava all’insperato quanto inaspettato successo di Smetto quando voglio, l’opera prima di Sydney Sibilia che conquistò le platee e una buona fetta di addetti ai lavori con il suo mix travolgente di humour nero, dialoghi effervescenti, situazioni divertenti e citazioni più o meno dichiarate. In poche parole, quanto bastava per riportare il sorriso sulle labbra di un pubblico nostrano sempre meno abituato a certi regali da parte della commedia made in Italy contemporanea. A un biennio e spiccioli da quel exploit, il genere in questione, che tantissime soddisfazioni ci aveva dato negli ormai lontani anni d’oro, salvo rarissime eccezioni ha prodotto poco e niente di particolarmente significativo. Di conseguenza, abbiamo desiderato giorno e notte che qualcuno convincesse il regista campano a tornare dietro la macchina da presa per firmare il sequel della sua pluri-decorata pellicola d’esordio, con protagonista la scalcinata, improbabile, ma ormai celebre “banda dei ricercatori”. Ebbene, qualcuno evidentemente è riuscito a convincere il caro Sibilia a raccogliere l’invito e con esso la sfida, in maniera talmente convincente che il cineasta classe 1981 ha deciso di rilanciare la posta in gioco realizzando non uno, ma la bellezza di due sequel, per di più girati in modalità back to back (ossia contemporaneamente), primo dei quali battezzato Smetto quando voglio – Masterclass. Ed è proprio del secondo capitolo della trilogia (seguirà nei prossimi mesi Smetto quando voglio – Ad Honorem), nelle sale a partire dal 2 febbraio 2017 con le cinquecento copie messe a disposizione da 01 Distribution, che vi parleremo.
Il compito era di per sé non facilissimo, per tutta una serie di motivi piuttosto semplici da intuire. Prima di tutto bisognava fare meglio, o quantomeno eguagliare i buoni risultati ottenuti al box office dal film precedente. Ma nessuno ha la palla di vetro e per pronunciarsi in merito bisognerà attendere il verdetto del botteghino. Poi occorreva riconfermare e se possibile alzare l’asticella del divertimento rispetto a quanto portato sul grande schermo nel 2014. E last but not least serviva trovare un appiglio, un cavillo narrativo e drammaturgico al quale aggrapparsi per rilanciare e riprendere le redini di una storia che, visto l’epilogo, sembrava una pratica chiusa e in via di archiviazione. Insomma, con tali presupposti, la scelta di rimettere mani sulla vicenda e sui personaggi era tutto tranne che scontata. E come se non bastasse, se a tutto questo si vanno ad aggiungere anche le non poche aspettative fisiologicamente e giustamente riposte dal pubblico sul prodotto finale, allora le motivazioni per lasciare perdere erano davvero tantissime. Eppure il regista con i compagni di scrittura Francesca Manieri e Luigi Di Capua, quel cavillo lo hanno trovato scavando nemmeno troppo in profondità nell’epilogo del primo episodio, a sufficienza per mettere in piedi senza doppi o tripli salti mortali le architetture necessarie per dare forma e sostanza ai restanti tasselli della saga. In tal senso, ci teniamo a sottolineare proprio che il cavillo in questione non ha nulla di forzato, nulla di pindarico o machiavellico dietro, come accade invece il più delle volte quando gli sceneggiatori di turno sono costretti a inventarsi tutto e il contrario di tutto per riesumare a distanza di anni personaggi e saghe. Sibilia & Co., un po’ come il Brizzi ai tempi dell’operazione Notte prima degli esami – Oggi, hanno trovato la giusta chiave di volta per riaprire la partita e questo è un merito che va loro riconosciuto, al di là della riuscita oppure no del film.
E quindi la “banda dei ricercatori” è tornata. Anzi, non è mai andata via. Se per sopravvivere Pietro Zinni e i suoi colleghi avevano lavorato alla creazione di una straordinaria droga legale diventando poi dei criminali, adesso è proprio la legge ad aver bisogno di loro. Sarà infatti l’ispettore Paola Coletti a chiedere al detenuto Zinni di rimettere su la banda, creando una task force al suo servizio che entri in azione e fermi il dilagare delle smart drugs. Agire nell’ombra per ottenere la fedina penale pulita: questo è il patto. Il neurobiologo, il chimico, l’economista, l’archeologo, l’antropologo e i latinisti si ritroveranno loro malgrado dall’altra parte della barricata, ma per portare a termine questa nuova missione dovranno rinforzarsi, riportando in Italia nuove reclute tra i tanti “cervelli in fuga” scappati all’estero. La banda criminale più colta di sempre si troverà ad affrontare molteplici imprevisti e nemici sempre più cattivi tra incidenti, inseguimenti, esplosioni, assalti e rocambolesche situazioni come al solito… “stupefacenti”.
Smetto quando voglio – Masterclass si basa, dunque, sulla stessa formula e sulla stessa veste stilistica del primo capitolo, ossia ritmo, fotografia dai colori acidi e una buona commistione di generi per dare vita a un’action-comedy dove fare incontrare un certo tipo di commedia verbosa all’italiana con un certo filone di film d’azione a stelle e strisce degli anni Settanta e Ottanta. Di conseguenza, le citazioni non si contano più sulle dita delle mani, anche se queste vanno a incastrarsi alla perfezione nel tessuto originale dello script. Quest’ultimo ha però un piccolo difetto, che consiste in un ritardo nel rodaggio dovuto a quella trentina e passa di minuti iniziali utilizzati dagli sceneggiatori per riepilogare la situazione e porre le basi necessarie per ripartire. Un peccato di gola che ci sentiamo comunque di perdonare, perché a conti fatti va a incidere solo sulla durata della timeline e non sull’esito finale, con i restanti settanta minuti circa che funzionano come un motore a pieni giri. Del resto, come recita l’antico detto: “squadra che vince non si cambia”. Questo è vero, ma non del tutto, perché nel caso del secondo episodio (e probabilmente anche del terzo) gli autori sono andati ad aggiungere alla ricetta qualche ingredienti in più per rafforzarla, a cominciare dalla crescita evidente della componente action all’interno della timeline, con alcune scene davvero ben confezionate (l’inseguimento nel parco archeologico, l’inserimento del GPS nel container e soprattutto l’assalto al treno) che vanno a dare manforte alle gag comiche, che restano ovviamente il piatto forte del menù (irresistibile la prima riunione al poligono di tiro). Menù che è andato arricchendosi anche grazie all’introduzione di nuovi temi (uno su tutti la fuga di cervelli) e di nuovi personaggi, con qualche new entry nel già folto cast a disposizione, che rende la pellicola ancora più corale.
Il tutto fa di Smetto quando voglio – Masterclass un “corpus audiovisivo e drammaturgico” autonomo, dotato di un arco narrativo indipendente che gli consente di non essere considerato solo ed esclusivamente un capitolo di transizione che conduce per mano lo spettatore verso la chiusura della trilogia. L’epilogo lascia ovviamente i giochi aperti e siamo sicuri che ne vedremo davvero delle belle, ma è in grado comunque di fornire piccole risposte e mettere la parola fine a qualche parentesi aperta in precedenza (vedi il vero motivo dell’incidente automobilistico di Alberto Petrelli con il quale si concludeva la pellicola del 2014). Ora non ci resta che attendere l’uscita di Smetto quando voglio – Ad Honorem per conoscere il destino della banda: continuerà a esistere o si scioglierà?

Francesco Del Grosso

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