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Si Vis Pacem Para Bellum

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VOTO: 5.5

Western italian stories, tatuate sul braccio di Stefano Calvagna

Se vuoi la pace devi preparare la guerra, e tatuartela sul braccio. Sono strade balorde quelle del mondo, la città gronda di compromessi sleali e di delitti da tre soldi, il ponte sul biondo Tevere traccia netto il solitario vettore di battaglie spicciole, per la sopravvivenza banale di un uomo come tanti, che vuole e può amare ma deve pagare il prezzo. Cavaliere dell’oggi distopico, buttafuori eremita ma anche killer mercenario, Stefano Calvagna scrive e (si) dirige col suo tratto, ormai marchio, da narratore seriale, un western metropolitano dal taglio televisivo, pulito, lineare e vagamente naif, persino condito da amare riflessioni sulla deriva dell’ammafiata società (italiota) attuale.
Si Vis Pacem Para Bellum, al cinema dal 18 maggio. Muscolare e granitico, eppure fragilmente  fuori posto, giustiziere della notte “de noantri”, tanto orgogliosamente ispirato all’epica classica tramandata dal poliziesco e dal noir italiano, francese e americano, quanto avviluppato ai relativi e appiattiti ma funzionali cliché dei “generi”, Calvagna torna a farsi “biografico”, tessendo la tela di un personaggio a margine del tempo. Che ammazza malavitosi, ai comandi di un boss inscalfibile con figlia scalpitante; che si allena in palestra e aiuta gli sconosciuti per solidarietà ed empatia; che fa visita regolarmente alla madre malata di Alzheimer e finge con lei che il padre (in realtà brutalmente assassinato difronte a lui decenni prima) sia ancora vivo; che si innamora perdutamente di una giovanissima cinese figlia di un ristoratore bigotto e rigido. Macho stentoreo e pragmatico da un lato; figlio devoto e amante tenero e rispettoso dall’altro. Pronto a fuggire con la sua bella verso un orizzonte (orientale) di nuove libertà immaginate. Braccato tuttavia da una realtà ben più feroce  cinica della sua stessa pistola. Tra sceneggiati di mamma Rai e pubblicitarie cartoline di mamma Roma (e dintorni), Calvagna cerca il graffio di un Leon, taxidriverando in sella alla sua moto, sulle mean street della Capitale ululante, eroe unico di un’armata senza bandiera. Come senza etichette vuole essere il suo cinema, autodefinito da Calvagna “indipendente”, restando inviso ai cultori radical chiccosi del termine. Calvagna è sì indipendente, nel suo essere e restare unico o quanto meno distinguibile, autore di un cinema ruvido anche se “tecnico” sebbene spesso ingenuo, certo più digeribile per un pubblico avvezzo alla fiction tv riciclata da Rai, Mediaset & Co da ormai quarant’anni. Un artigianato filmico dalle forme in parte commerciali(zzabili), non privo di un product placement da piccolo schermo, a metà tra “spaghetti”(in questo caso cinesi)-action e thriller pulp, tra sesso droghe sangue e arena, tangente al mainstream internazionale ma più vicino a Centovetrine o al buon affidabile Commissario Rex.

Sarah Panatta

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