L’ospite interiore
Cosa accadrebbe se davvero fosse messo a punto un procedimento scientifico attraverso cui si riesca a far trasmigrare l’apparato mentale completo – con tanto di ricordi – da un corpo irrimediabilmente malato ad uno giovane e sano? Niente di buono, si direbbe di primo acchito. Un po’ perché contravvenire alle leggi di Madre Natura (oppure di Dio, se si è credenti) presenta sempre un discreto margine di rischio; molto perché si può essere assolutamente certi che un tipo di pratica del genere, ovviamente riservato a persone di una certa caratura sociale, finirebbe in mani poco rassicuranti. Self/less, fanta-thriller diretto da Tarsem Singh, sposa in pieno la seconda ipotesi, curandosi molto poco della prima.
In sintesi: l’anziano costruttore miliardario Damian Hale (Ben Kingsley, in performance da pilota automatico), affetto da cancro terminale, non si rassegna alla sorte. Vagheggiando una possibile immortalità, si affida allo “shedding” (questo il nome del procedimento in questione), ovvero il trasferimento suddetto in un corpo giovane e atletico. Prima magagna: il misterioso dottor Albright, che sovraintende all’operazione, assicura che il corpo in questione è stato creato in laboratorio; mentre invece ha il suo legittimo proprietario in Mark (Ryan Reynolds, al solito assai poco espressivo), offertosi come cavia per consentire una costosa operazione che avrebbe salvato la vita alla figlia. Va da sé che il tutto condurrà ad una serie di conflittualità risolvibili solo con le maniere forti. E il peccato originale di cui si macchia Self/less, non appena si va oltre le intriganti premesse, è proprio quello di imboccare senza riserve la strada del thriller d’azione a completo scapito di una interiorizzazione della vicenda che avrebbe potuto farne un film da ricordare. Il dramma (multi)personale di un corpo in cui convivono due entità distinte viene risolto dalla sceneggiatura dei fratelli catalani Alex e David Pastor – assurti ad una relativa celebrità con la loro opera prima da registi Carriers (2009), che raccontava di una tragica epidemia globale – nel solito plot “a scatole cinesi”, durante il quale vengono gradatamente svelati i contorni dell’intrigo nonché del complotto messo a punto da un’organizzazione tanto potente quanto priva di scrupoli.
Le illogicità presenti nello script sono però molteplici. La più assurda e rilevante consiste proprio nella istantanea trasformazione di Damian, una volta “trasferitosi” nel corpo del suo ospite, da bieco capitalista senza scrupoli a comprensivo eroe positivo, sin da subito proteso a rintracciare e quindi proteggere la famiglia (moglie e figlioletta) del suo passato come Mark. Nemmeno troppo paradossalmente, il tema del recupero della memoria dopo essere stati trasferiti in un corpo “immortale” era stato accennato con molta più partecipazione emotiva nel primo Robocop (1987), perfetto esempio di film transgenere. Self/less si adagia al contrario sui pigri binari di una routine narrativa che imbavaglia senza possibilità alcuna di sbocco persino i virtuosismi formali di Tarsem Singh, per l’occasione in evidenti ambasce nel compensare con la regia le varie falle di sceneggiatura. A dare poi il colpo di grazia arriva un epilogo a dir poco buonista in eccesso che attesta definitivamente il ritrovato afflato filantropico di Damian – resosi evidentemente conto degli scempi commessi dentro e fuori il film, perciò ansioso di scrivere la parola fine – e fa terminare la storia nel paradiso di un’isola caraibica in un finale che certamente piacerà a Muccino senior (vedere quello di Baciami ancora) ma un po’ meno al resto della platea.
In sostanza Self/less si iscrive d’ufficio alle vasta categoria delle occasioni a dir poco malamente sprecate: quelle cioè di realizzare un ulteriore capitolo di una fantascienza adulta e consapevole che tante perle ha regalato, nel corso degli anni, ai cinefili sparsi per il globo. I quali dovranno giocoforza attendere un’altra occasione….
Daniele De Angelis