L’amore ai tempi del condono
Quasi ad emulare, ma allungando di poco le distanze, un leitmotiv introdotto dal grande Kim Ki-duk (cfr. Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, 2003), il film-maker siciliano Francesco Calogero ha deciso di affidarsi al ritmo delle stagioni per scandire i tempi del suo ultimo lavoro cinematografico, incentrato su amori sofferti, coppie che si disfano, aspirazioni irrisolte, traumi seppelliti nella memoria. Addirittura un inverno, una primavera, un’estate, un autunno, un altro inverno e un’altra primavera per raccontare tutto ciò; ma la sensibilità, il lirismo e l’asciuttezza simbolica del cineasta coreano, da noi poc’anzi evocato, rappresentano un modello lontano anni luce. E forse sono soltanto le coordinate temporali del racconto ad averci consentito di tirare in ballo, un po’ pretestuosamente, tale modello. Perché in realtà è a certe atmosfere della Nouvelle Vague, ad autori come Eric Rohmer o il recentemente scomparso Jacques Rivette, che un film come Seconda primavera sembrerebbe strizzare l’occhio. Ma anche qui con passo piuttosto sbilenco, sgraziato.
La narrazione, che pare utilizzare il punto di vista del disincantato e fin troppo accondiscendente architetto Andrea Ricoli (Claudio Botosso), quale suo fulcro, prende le mosse da un fatidico Capodanno in cui i rapporti del protagonista con alcuni amici, colleghi e clienti andranno bruscamente a modificarsi, spingendo verso la nascita di nuove coppie e portando allo sfasciarsi di altre, già in crisi da tempo.
Il problema di questa cangiante ricognizione dei rapporti famigliari, delle passioni, delle più o meno solide amicizie, con cui vengono ritratti certi ambienti della medio-alta borghesia italiana, ambienti che qui assumono troppo spesso toni da operetta, è il non far nemmeno capire quanto l’autore sia consapevole dei livelli farseschi raggiunti da dialoghi e situazioni: umorismo involontario o poco decifrabile divertissement cinefilo? Chissà. Fatto sta che quei risibili scambi di battute, in cui squallidi tradimenti, improbabili velleità artistiche del bamboccione di turno e malinconici quanto ingessati sguardi rivolti al passato si mescolano con l’ossessivo ricorrere di discussioni intorno ad abusi edilizi, appalti e villette edificate a pochi passi dal mare, hanno prodotto in noi un altro dubbio inquietante: quello cui abbiamo assistito, con buona pace di Gabriel García Márquez, non sarà stato mica “un amore ai tempi del condono”?
Stefano Coccia