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Schegge di Ottanta: Fandango

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VOTO: 9

La dolce(amara) giovinezza

Questo non è un film per adulti. Parafrasando Cormac McCarthy così potremmo definire un lungometraggio come Fandango. Perché Fandango mette in scena un circostanziato momento dell’esistenza, quello in cui si è ormai irrimediabilmente vicini alla maturità e si cerca disperatamente di prolungare la gioventù che sta sfuggendo via. E infatti Fandango è un film “in fuga”. Un road-movie con una mèta fittizia, nonché soggetto a numerosi cambi di traiettoria. L’opera erratica per eccellenza.
La cesura con il mondo degli adulti avviene subito, quando più o meno involontariamente vengono mostrati un gran numero di sederi ai genitori di uno dei personaggi principali. Uno sberleffo, poi ripetuto nelle highway verso un camionista, dettato dalla paura che attanaglia i cinque giovani protagonisti: quella di essere risucchiati dal giogo borghese, dalla calma piatta che inneggia al motto Dio, Patria e Famiglia osservata e temuta come passaggio obbligato verso la fine.
La Storia del Cinema insegna che non esiste cult-movie che non abbia almeno una seconda (terza, quarta…) chiave di lettura. Ne è ben consapevole Kevin Reynolds, regista e sceneggiatore di un film perfettamente in grado di travalicare un grado di fruizione primaria. A maggior ragione quando si affrontano tematiche generazionali come in Fandango. Siamo in Texas nel 1971. All’alba di in decennio di riflusso, in uno dei territori più conservatori degli interi Stati Uniti. Lo studio universitario è agli sgoccioli, con alterno rendimento. I cinque “Groovers” (ragazzi in gamba), con la palpabile ritrosia di Phil Hicks (Judd Nelson), intraprendono un viaggio il cui scopo è quello di disseppellire Dom. Ovvero la bottiglia di champagne marca Dom Perignon sepolta anni prima, allorquando il gruppo era agli inizi del percorso di conoscenza. Per due di loro – Gardner Barnes (Kevin Costner) e Kenneth Waggener (Sam Robards, figlio d’arte) – il Vietnam incombe, avendo già ricevuto la cartolina precetto. Uno spettro inquietante più volte evocato nel corso del film, ad esempio nella surreale e poetica sequenza dei fuochi d’artificio sparati nel cimitero, a simboleggiare l’inevitabile, traumatico, accesso al mondo adulto. Una follia che va combattuta con un’altra follia. O meglio, una serie di “ultime follie”. Fandango rappresenta un interludio dove tutto è concesso. Anche agganciare il paraurti del proprio mezzo di trasporto, rimasto bloccato nel deserto, ad un treno di passaggio. Con esiti, ovviamente, alquanto rivedibili. Prima che la vita reclami, da infallibile esattore, l’indifferibile pegno da pagare. Ed è curioso notare come la storia avvenuta fuori dalla narrazione di Fandango si sovrapponga perfettamente con lo spirito ultimo della diegesi del film. Cioè all’insegna degli effimeri momenti di gloria giovanile.
Nel 1980 Kevin Reynolds gira Proof, cortometraggio della durata di ventiquattro minuti principalmente incentrato sul particolare battesimo dell’aria a cui si sottopone il personaggio di Phil Hicks, irresistibile macrosequenza narrativa presente anche in Fandango. Poco tempo dopo il corto attira l’attenzione del già famoso Steven Spielberg, il quale sprona Reynolds ad ampliarlo per farne un lungometraggio che lui stesso produrrà. Il resto è Storia (del Cinema). Peccato che la carriera di Reynolds, dopo un altro exploit di valore (il tesissimo, simbolico, film bellico di ambientazione afgana Belva di guerra, del 1988) e qualche blockbuster di qualità non eccelsa girato con l’amico Costner (Robin Hood – Principe dei ladri, 1991 e Waterworld, 1995), si adagi su binari di una mediocrità assai poco originale (Risorto, 2016). Per la serie la vita come un film, Suzy Amis e Sam Robards, protagonisti dello stupefacente e suggestivo matrimonio “fai da te” nel memorabile epilogo di Fandango, subito dopo si sono sposati anche nella realtà. Salvo poi separarsi qualche anno più tardi. Attualmente lei è la moglie del James Cameron di Titanic e Avatar. Judd Nelson, in Fandango il “pisellone” Phil Hicks, ha girato nel solo 1985 due cult-movies conclamati come Breakfast Club di John Hughes e lo stesso Fandango, con l’aggiunta del grande successo giovanilistico St. Elmo’s Fire di Joel Schumacher. In seguito praticamente più nulla di rilevante.
Fandango è stato dunque un lampo di luce che ha illuminato la carriera di molti suoi artefici. Alla fine, al pari degli ultimi, meravigliosi, fotogrammi del film, le stesse luci si sono spente, gli sposi sono andati via ed è rimasto solo il tempo per un ultimo brindisi nella semioscurità, a tramonto inoltrato. Fandango non è un film per adulti. Come il “forever young” James Dean, citato nella narrazione in quanto icona di una giovinezza cristallizzata nel tempo. Ad ogni visione di Fandango rimane il dolce sapore di un’età vissuta con intensità ed assieme l’amaro e sommesso lamento un po’ anarchico di tutti coloro a cui non rimane altro che sublimarne il ricordo.

Daniele De Angelis

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