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Scary Stories to Tell in the Dark

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VOTO: 6.5

Parole al sangue

Guillermo del Toro tra gli sceneggiatori e in ruolo produttivo. Il norvegese André Øvredal, ancora fresco dell’apprezzamento globale per Autopsy (2016), dietro la macchina da presa. Insomma, non si può certo affermare che il pedigree di questo Scary Stories to Tell in the Dark, facente parte della Selezione Ufficiale alla quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma e a breve nelle sale nostrane, sia trascurabile. Tutt’altro. Semmai sussiste il solito problema del target di riferimento di una certa tipologia di film di genere: girare cioè una cosina leggera, che possa intrigare il pubblico adolescenziale senza altre pretese, oppure fare sul serio e realizzare un horror con tutti i crismi, in grado di appassionare, se non addirittura spaventare, un pubblico anche di generazione differente? Una questione non di poco conto. Anche perché il film che ci accingiamo ad analizzare non sembra affatto scartare le tendenze del momento, quelle cioè del recupero di un “innocenza” formale tipica degli anni ottanta – anche se il film è ambientato nel 1968 – ritornata prepotentemente in voga grazie all’inimitabile serie televisiva targata Netflix Stranger Things. Ed è infatti a quel micro-macrocosmo culturale che guarda Scary Stories to Tell in the Dark, lungometraggio che fa propri alcuni stereotipi tipo i protagonisti ragazzini ambosessi, proiettandoli in una vicenda comunque ricca di sottotesti e citazioni molto “deltoriane”, se ci passate il neologismo.
Nessuno quindi avrà l’ardire di gridare all’originalità, per un prodotto come questo. L’immaginario messo in scena è infatti di seconda, se non di terza, mano. Notte di Halloween, case stregate, lo spirito inquieto di una giovane vittima di punizioni oscene nel passato che trama oscure vendette. Tutto già sentito e soprattutto visto molteplici volte. Anche se la prevedibilità può essere talvolta un rifugio confortevole. Ma per apprezzare il film di un buon mestierante come Øvredal c’è bisogno di altro. Di lasciar stare il nucleo della storia per affidarsi al dettaglio. Di notare, ad esempio, il bel montaggio alternato tra presente e passato dell’ultima parte, parente stretto di quello – sublime – operato da Peter Jackson in Sospesi nel tempo (1996). In tal caso ci si può abbandonare consapevolmente al giochino sperando di ricavarvi persino una certa dose di divertimento. Come il cinema di del Toro ci ha da sempre abituati, ogni suo film – che sia da lui diretto o prodotto – racconta una fase di passaggio dei vari personaggi utilizzando allo scopo il genere horror. Cioè l’orrore come dimensione adiacente al reale, qualcosa da dover affrontare, non sempre con successo, per poi passare ad un’altra fase esistenziale. Perciò non è affatto casuale che in Scary Stories to Tell in the Dark si parli, più o meno incindentalmente, di Richard Nixon rieletto (su un muro compare la scritta con la x del suo nome sostituita da una svastica nazista) e del Vietnam, gettando un’ombra pesante sull’intera gioventù dell’epoca. E poi la forza delle storie. Storie che si auto-scrivono col sangue, per mano del fantasma della sfortunata Sarah Bellows cui facevamo cenno in precedenza. Storie che possono condurre alla morte ma anche insegnare all’esperienza della vita. Una regola aurea del cinema di del Toro: ciò che spaventa perché ignoto non sempre è da temere.
Anche per questo, superando le banalità che talvolta emergono nella trama, Scary Stories to Tell in the Dark può essere considerato un film educativo, che non cela affatto un forte significato pedagogico. I più giovani avranno qualche momento di genuina paura; ai più maturi il compito di rimarcare quei sottotesti capaci di rendere il film non dimenticabile pochi secondi dopo la visione. Ci pare abbastanza per non seppellirlo nell’indifferenza.

Daniele De Angelis

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