C’era una volta il litio
Quello che sta succedendo a Covas do Barroso, un piccolo centro abitato di 160 anime, nel nord del Portogallo, segue un copione che si ripete ovunque nel mondo. La piccola comunità rurale insorge contro il progetto, ormai deliberato ai massimi livelli governativi, di aprire una grande attività estrattiva a due passi dalle abitazioni, che stravolgerebbe la vocazione agricola di quel territorio, con la possibilità di inquinamento delle acque e, in generale con un pesante impatto ambientale sul circondario. Una decisione presa dall’alto, a livello nazionale e internazionale, senza coinvolgere la popolazione locale. Il tutto sotto l’imperativo della conversione ecologica. Il litio estratto servirà per le batterie delle automobili elettriche. Ma, obiettano gli abitanti, sarà per i ricchi del pianeta, non per loro. E, in ogni caso, non si è tenuto conto che quel territorio è stato riconosciuto dalla Fao come patrimonio agricolo di rilevanza globale nel 2018.
A raccontare la lotta per la propria terra dei coraggiosi abitanti di Covas do Barroso è il giovane filmmaker portoghese Paulo Carneiro nel suo terzo lungometraggio, A savana e a montanha, che è stato presentato alla Quinzaine des cinéastes di Cannes 2024. Il regista gioca sull’evocativo nome della società mineraria britannica che dovrebbe realizzare le miniere, Savannah Resources, per un’operazione che, già dalla grafica pacchiana dei titoli di testa, richiama tanti B-movie western. Il regista sceglie un originale format per realizzare comunque un film militante, ovvero colorare, immergere in un’atmosfera da film di genere il racconto della vita quotidiana di una comunità rurale, in fermento per la prospettiva della perdita della vocazione del proprio territorio di appartenenza. A ciò si aggiunge una narrazione a volte fiabesca, che può ricordare vagamente l’operazione del regista connazionale João Botelho che raccontava, in Se a Memória Existe, la rivoluzione dei garofani ai bambini. Sono gli stessi abitanti comunque che hanno scelto questa narrazione da film western, usandone le simbologie nella loro processione folkloristica che si tramuta in una colorita manifestazione anti-miniere. E qui abbiamo anche la composizione dell’immagine più suggestiva del film, un tipico manifesto a muro di “wanted dead or alive” con taglia, con una fessura dalla quale spuntano gli occhi di una donna del paese.
Un territorio brullo, collinare con delle modeste abitazioni di campagna, a volte immerso nella nebbia: così il paesaggio filmato dal regista, popolato, nella scena iniziale, da cavalli bianchi, simbolo eterno di libertà. Paulo Carneiro mostra grande sensibilità nel rendere quella vita delle persone locali ancora in armonia con la natura, mentre raccolgono frutti, o prendono le salsicce appese in cantina, o si raccolgono in preghiera in una religiosità semplice, di campagna. Il film è scandito dal cambio delle stagioni, aderendo al ciclo della natura, della vita. Le scene umane sono spesso organizzate a tableau vivant. Per ricreare, davanti alla camera, la vicenda della pianificazione dell’attività mineraria, il modo in cui gli abitanti sono venuti a conoscerla, le loro reazioni, il regista ha lavorato con gli abitanti, come detto nei titoli di coda, con un lavoro di reenactment. Un cantastorie arricchisce lo storytelling. E la sincerità dell’approccio di Carneiro, la sua vicinanza autentica a quella gente, è garantita dall’ultima scena, cui ci si arriva con un lento incedere come la preparazione della battaglia finale. La mdp carrella sui volti di tutti gli abitanti, su dei trattori, li scruta, cogliendone così la determinazione e la fierezza.
Giampiero Raganelli