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Sangre blanca

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VOTO: 5

Corpi in transito

In medias res. Il film diretto da Barbara Sarasola Day e inserito nella Tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma ha senz’altro il pregio di catapultare da subito lo spettatore in una situazione estrema. Senza particolari preamboli. Si assiste difatti, in Sangre blanca, al tentativo di una giovane coppia di attraversare il confine tra Argentina e Bolivia, nascondendo ovuli di cocaina nell’addome. La cosa prende subito una brutta piega. Lui accusa un malore. Rifugiarsi in un alberghetto da quattro soldi non risolve nulla. Fitte. Convulsioni. E alla povera Martina non resta che vegliare il corpo agonizzante di Manuel. Fino alla sua morte.
All’incipit crudo, folgorante, seguono fasi del racconto caratterizzate ugualmente da toni ruvidi e da uno stato di tensione crescente: dopo aver saputo dell’incidente, gli spietati trafficanti che avevano imbottito di droga i due ragazzi minacciano per telefono Martina, affinché recuperi e consegni loro tutta la merce. Compresa la parte rimasta bloccata nel corpo senza vita dell’altro.

Corpi in transito. Corpi affittati per portare avanti lucrosi affari. Corpi che valgono meno del loro carico. La partenza di Sangre blanca  è senz’altro bruciante, colpisce come un pugno allo stomaco. E l’interesse del plot pare aumentare quando la ragazza, terrorizzata, non sapendo cosa fare di quel corpo e del truce compito assegnatole si decide a telefonare, dopo tempo immemore, all’unica persona che in teoria potrebbe aiutarla: suo padre, che però è un padre assente, avendola disconosciuta tanti anni prima. “Il padre che non c’era”, parafrasando i Coen. Tant’è che la lunga telefonata al cinico genitore finisce per essere uno dei momenti più intensi dell’intero lungometraggio, complice la bravura dell’attrice Eva De Dominici, posseduta qui da emozioni violente che durante la scena mutano di continuo.
Da questo punto in poi, però, la forte inquietudine accumulatasi nella così secca narrazione cinematografica comincia a diradarsi, in seguito a scelte narrative e di regia che appaiono fin troppo leziose, programmatiche, impossibilitate al dunque a sviluppare adeguatamente le diverse tracce suggerite da un soggetto, che poteva essere sviluppato meglio. Sì, perché è quella stessa, riuscita atmosfera da sordido romanzo criminale in salsa latinoamericana, laddove le storie di droga e di malavita organizzata raggiungono punte di inaudita ferocia, ad affievolirsi progressivamente, di fronte all’emergere di uno psicodramma famigliare condotto però con tocco eccessivamente manierato. Nel sovrapporsi alla più sanguigna sottotrama gialla, il conflittuale rapporto padre – figlia finisce per imboccare una via stereotipata, che il continuo indugiare della macchina da presa sui tempi morti, sui dettagli, sulle frasi dette a mezza bocca, appesantisce poi in modo tutto sommato gratuito. Ed il film rimane conseguentemente sospeso in un limbo, presso il quale né l’analisi introspettiva del carattere della ragazza né le componenti più pulp del racconto decollano mai veramente.

Stefano Coccia

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