Home Festival Altri festival Safe Place

Safe Place

355
0
VOTO: 9

Un grido soffocato

Il film è ridotto all’essenziale, legandosi a un breve periodo di tempo e a una situazione molto precisa riassumibile in un imperativo: salva chi ami.
Juraj Lerotić

Cominciamo pure con una confessione intima, personale, in sintonia quindi con i toni adottati nel film di cui vi andremo a parlare: dei tre lungometraggi presenti quest’anno a Trieste che la Giuria ci ha tenuto a segnalare (ovvero il vincitore di tale concorso e le due menzioni speciali) Safe Place (Sigurno mjesto, 2022) è l’unico ad averci completamente soggiogato, coinvolgendo emotivamente chi scrive a livelli raramente provati prima. Il tutto al netto di un’impalcatura formale che sembrerebbe quasi voler implodere, rarefarsi, oggettivando le situazioni ivi descritte con un ricorso costante al campo lungo, all’osservazione dei personaggi da una certa distanza, con il risultato invece di rendere ancora più palpabile l’angoscia dei protagonisti, di dar voce al loro disagio e di relegare a un impietoso fuori campo l’ansia che qualcosa di terribile possa alfine accadere. Ed infatti accadrà. Ad ogni modo, il film diretto dal croato Juraj Lerotić al Trieste Film Festival 2023 ha ricevuto un’assai condivisibile Menzione Speciale “per aver condiviso con noi un viaggio emotivamente intenso, visivamente stupefacente e profondamente personale che ci mette di fronte alla morte, la più grande delle paure umane.

Rendendo il cinema una sorta di strumento terapeutico (per se stesso e per chiunque abbia vissuto tragedie simili), Juraj Lerotić si è esposto in prima persona non soltanto girando questo lancinante racconto cinematografico, ispirato ad assai tristi vicende famigliari, ma prendendo la non meno sofferta decisione di interpretare lui stesso uno dei personaggi chiave; ossia Bruno, il quale, dopo aver scoperto per tempo il tentativo di suicidio del fratello Damir (Goran Markovic), farà qualsiasi cosa con l’aiuto della madre (Snjezana Sinovcic) pur di ripristinare un po’ di armonia in famiglia, nella speranza che il loro caro non cerchi nuovamente di ammazzarsi, finendo però amaramente per scontrarsi sia con un profilo psicologico ormai devastato che, a latere, con istituzioni inadeguate, fondamentalmente incapaci, rappresentate da individui poco sensibili e condizionate da protocolli che raramente sanno agganciarsi al versante umano di simili accadimenti.
La serrata narrazione è destinata fatalmente a concludersi nel corso di non molte ore, durante le quali i famigliari di Damir dovranno prendere decisioni difficili, dall’esito scarsamente prevedibile, nel tentativo di far recedere Bruno dal suo tremendo proposito. La descrizione spietata, dolente, di una psicosi finita fuori controllo fa rima con l’implicito atto d’accusa nei confronti di presidi sanitari e di altre figure pubbliche (compresi certi rappresentanti delle forze dell’ordine) che saranno ben poco d’aiuto, in virtù della loro scarsa empatia e della cieca obbedienza a formule burocratiche di dubbia efficacia. L’aspetto affettivo, esistenziale, è comunque quello maggiormente approfondito nel film. Assieme, naturalmente, a quegli elementi di natura spaziale che tendono ad accompagnare ciascun passo dei personaggi, rispecchiandone almeno in parte lo stato emotivo: da un lato quel continuo relegare il consumarsi del dramma a campi lunghi o totali dell’ambiente prescelto, come si accennava all’inizio, dall’altro attraverso quella fuga che porterà i protagonisti dalla più austera Zagabria all’Adriatico, quasi la promessa (non mantenuta) di una possibile redenzione. Fino al vertiginoso, inesorabile stacco di montaggio che dall’urlo straziante della madre di Damir ci proietta, non a caso con un paesaggio marittimo sullo sfondo, nella non meno lancinante cornice dei ricordi.

Stefano Coccia

Articolo precedenteSull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile
Articolo successivoTill the End of the Night

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

2 × 3 =