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Rumore bianco

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VOTO: 8

Intellettuali “a perdere”

Don DeLillo su carta, Don DeLillo al cinema. Due faccende estremamente differenti. Nel primo caso un contatto diretto con i lettori, che possono crearsi a piacimento un proprio universo di cui lo scrittore fornisce le coordinate di base. Nel secondo c’è già un’immagine confezionata, mediata da un altra persona identificabile nella figura del regista. Operazione alquanto temeraria, poiché la trasposizione può funzionare solamente attraverso una lettura artistica in grado di soddisfare sia la poetica dello scrittore che quella del cineasta, sempre che quest’ultimo ne sia in possesso.
Al ristrettissimo club di coloro che hanno ottenuto un risultato interessante – dopo il quintessenziale Cosmopolis (2013) di David Cronenberg – si iscrive anche Noah Baumbach con Rumore bianco, in tutta evidenza opera fondamentale nell’ambito della propria filmografia. Poiché Rumore bianco non solo coglie alla perfezione sia la visione umanista che lo straniante umorismo “post-moderno” di DeLillo, ma estremizza con lucidità senza pari anche le nevrosi nascoste da sempre presenti nei personaggi portati sullo schermo da Baumbach, il cui cinema è stato spesso accostato – non a caso – a quello di Woody Allen, sia pure con tutte le differenze del caso.
La diffidenza, anche e soprattutto critica, con cui è stato accolto il film che ha aperto il concorso dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, in fondo è facilmente spiegabile. Rumore bianco è una satira. Spietata, perché viviseziona, lasciando dietro di sé solo brandelli, quella micro classe sociale che si pavoneggia nel nome di una presunta superiorità intellettuale. La medesima, ironia della sorte, chiamata a giudicare il lungometraggio da un punto di vista, per l’appunto, critico. Dando vita ad un evidente gioco di “smarcamento”, nell’accusare Baumbach di vacuità e la famiglia Gladney, protagonista del film, di una presuntuosità condotta fino all’eccesso.
Sarebbe invece opportuno porsi un’altra domanda. Perché trasporre “Rumore bianco” proprio ora? Anche in questo caso la risposta è piuttosto semplice: se la genialità – e DeLillo è, incontrovertibilmente, un genio – significa anche saper interpretare un futuro magari prossimo venturo, allora un romanzo pubblicato nel lontano 1985 può raccontare molto, anzi quasi tutto, della società attuale. Quel futuro preconizzato è divenuto presente. E Baumbach, da autore di sopraffina sensibilità quale si è sempre dimostrato nel corso della propria filmografia, lo ha compreso alla perfezione. Anche per queste ragioni viene spontaneo accostare Rumore bianco (film) ad uno specchio sul quale si evita accuratamente di posare lo sguardo. Poiché rimanda con dovizia di particolari ciò che siamo diventati, ammorbati da estremismi perniciosi, ingannevoli teorie sul reale, chiacchiericcio senza senso che riverbera un’eco indefessa attraverso la grancassa del villaggio globale, social in primis. E la famiglia Gladney, con tutti gli altri personaggi che gli gravitano attorno, simbolizza in modo evidente una deriva disperata alla ricerca di qualcosa dichiaratamente irraggiungibile. Soprattutto perché la ricerca di un ipotetico benessere appare oggi più che mai un’utopia zavorrata da un perenne stato di insoddisfazione, teso a ricercare qualcosa del tutto fuori portata.
DeLillo e Baumbach osservano la nostra fauna in via di estinzione nell’unico modo possibile. Trasfigurandola cioè in un ambito puramente distopico e surreale più autentico della Verità, iniettando nel contesto robuste dosi di amarissima ironia. Il risultato, tra un segmento narrativo e l’altro in apparenza slegati tra loro, è una bomba ad orologeria posizionata dritta al cuore di quella classe sociale avente una funzione di guida (sia formativa – il capofamiglia Jack Gilney è un docente universitario sia pur sui generis – che, appunto, di traino) in qualsivoglia comunità che aspiri a definirsi tale. Quasi un epitaffio da pietra tombale per tutti coloro che hanno creduto – e credono ancora – alla possibilità di una società democratica almeno in precaria e parziale armonia. Con il rischio dell’autocrazia come altra strada da percorrere.

Daniele De Angelis

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