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Robin Williams: A Friend of Mine

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Robin Williams: un ricordo

Forse non è sacra tanto la vita, quanto la felicità.
E non c’entra in questo la retorica del dolore, di chi vorrebbe, ma non può. Non manca il rispetto o la massima empatia, anzi, per le storie di chi non può scegliere fra la felicità e la sofferenza. E’ proprio questo il punto.
La cultura che intride l’Occidente, specie quello “latino”, al di là dei rispettivi credo di ognuno, è rappresentata da una interpretazione popolare del cattolicesimo, per la quale bastano un Pater Noster e due Ave Maria per emendare i peccati del mondo, o almeno i propri. La religione non ci dice come essere felici nell’al di qua, perché svanirebbe, un secondo dopo, il bisogno umano di appellarvisi, ma ci promette la gioia eterna nell’al di là, a patto che si sia ubbidienti, come dovevano essere Ipazia, Giordano Bruno.
I matti invece non possono esserlo, per vocazione, e a loro non lo si chiede perché sono, appunto, solo dei fool.
E Robin Williams, fusione preziosa delle istanze di un malincomico elisabettiano, non poteva esserlo, con gli occhi velati della tristezza saggia di Feste che assiste al gioco delle parti tragico della commedia, ossimoro solo apparente, consapevole che a un naufragio ne seguirà un altro, ben più drammatico, quello di un’epoca, con i suoi lazzi amari, tinti di salvezza, per non scontentare i re.
I matti, condannati alla disillusione icastica dell’ironia, non possono ubbidire a nessuna regola e non tentano di avere altra prospettiva soteriologica che non sia l’ambizione laica, e vana, loro lo sanno, alla felicità.
I matti sono autarchici. Sono gli attori sul palcoscenico dell’esistenza e su quello dell’arte, gli unici, quelli grandi, in grado di sorreggere, sulla punta di un sorriso, che non è mai il loro, il male di vivere e la sua inestinguibile invadenza. Si calano nei ruoli come nelle miniere della mente umana, attingono a sogni che sanno irrealizzabili, felicità fallaci di cartapesta, trasfigurano tutto in visioni. Si arrangiano come possono, fra l’isteria di un recondito strasberghiano e l’abuso di vita, o di alcol, ché a volte, senza speranza, finiscono per risultare concetti coincidenti.
Di Robin Williams nulla sappiamo, soprattutto del suo dolore perché, come spesso accade, anche nel quotidiano, non sembra avere dolore chi ci fa ridere. Così non è, ovviamente, e le infusioni di serotonina a terzi, anche quando lautamente pagate, spostano l’occhio dal vero paradosso dell’ironia, dal greco εἴρων, l’interrogare fingendo di non sapere, ma sapendo meglio, più in profondità, conoscendosi/ci bene come esseri, non caduchi (o naturalmente caduchi), ma tristi. E chi sa, sapendo o fingendo di non sapere, può scuotere il velo ipocrita del potere, sradicando le fondamenta dell’autoritarismo, come faceva John Keating ne L’attimo fuggente, ma non può essere felice. E’ condannato, e lo sa.

 “Il mondo nascimento/ ebbe tanti anni fa/ in mezzo a pioggia e vento./ Ma che importanza ha?/ La commedia è finita, / noi non cercammo altro/ che allietarvi la vita,/ un giorno dopo l’altro.
”Ciao a Robin, il nostro padre più divertente, come ha scritto un caro attore su twitter, appena saputa la notizia. Un padre per il quale è lecito commuoversi, senza alcuna vergogna, perché siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni cinematografici.
Ciao a Robin, a spasso nell’Isola che non c’è, giovane e ribelle, senza dubbio, eterno grazie al cinema grazie al quale nulla è per sempre, nemmeno la morte, come faceva dire Terry Gilliam a Johnny Depp, con la mente alla scomparsa prematura di Heath Ledger.
Ciao a Robin che non è più in nessun luogo, ma resterà nella memoria di chi ha goduto delle sue performance. Forse, anche se difficile da elaborare, Robin, questa è la sola trovata che ti era rimasta per poter essere felice.

 Ilaria Mainardi

Dietro la maschera

Robin Williams non è mai riuscito a nascondersi del tutto, come molti altri invece sono riusciti a fare, dietro la maschera della sua professione. Brandelli più o meno grandi di umane debolezze sono sempre emersi. La pericolosa deriva verso le droghe, al pari dell’amico John Belushi; la sua irrequieta vita sentimentale; l’attrazione irresistibile nei confronti della bottiglia. In tutta evidenza c’erano diversi fantasmi che si agitavano all’interno della propria psiche di artista. Un grande, grandissimo artista. Proprio così. Perché pochissimi hanno condotto ad un livello di sublimazione tale quell’appellativo che in altri tempi si sarebbe un po’ spregiativamente definito come “giullare di corte”. Lui era nato per quello scopo: non solo – e banalmente – far ridere; bensì coinvolgere, trascinare, galvanizzare il pubblico che lo seguiva. Non a caso, Robin Williams diventa personaggio grazie al medium nazionalpopolare per eccellenza, la televisione. Chi era in grado di intendere alla fine degli anni settanta non può non ricordare il suo vulcanico exploit nella serie televisiva fabbrica miti per eccellenza Happy Days. Dentro i panni dell’alieno Mork c’era già tutto il Robin Williams irresistibile che avremmo imparato a conoscere col tempo; ed il suo duello indice versus pollice con Arthur Fonzarelli detto Fonzie (in palio c’erano le sorti di Richie Cunningham/Ron Howard; ma forse era un sogno, come del resto la tv dell’epoca per un bambino qualsiasi…) resta uno dei bagliori maggiormente sorprendenti usciti da una scatola catodica che al tempo sapeva davvero colorarsi di magia. Da lì un crescendo quasi rossiniano: il personaggio dell’alieno Mork ha così tanto successo da spingere i produttori a creare una sorta di spin-off, ovvero una serie televisiva tutta sua, la quasi altrettanto celebre Mork e Mindy. Ancora un alieno che cadde sulla Terra. Perché lui, Robin Williams, molto “alieno” – nel senso di diverso, distaccato – alle cose terrene probabilmente lo era davvero, come dimostreranno ampiamente alcuni passaggi di un’indimenticabile carriera cinematografica a seguire.
La tappa successiva della scalata alla massima popolarità è dunque, inevitabilmente, il cinema. Un grandissimo autore come Robert Altman ne fiuta subito il sopraffino talento, imponendolo protagonista nella sofisticata rilettura fumettistica – e perciò commercialmente fallimentare – Popeye (1980). Pochi purtroppo ricordano il film, molti rammentano però l’interpretazione del nostro. Arrivano altri titoli nel cinema di (relativo) impegno, come ad esempio Il mondo secondo Garp (1982) di George Roy Hill e Mosca a New York (1984) di Paul Mazursky, dove la sua performance nei panni di un barbuto immigrato sovietico negli States lascia una chiara traccia di commozione nella memoria di chi ha visto il film. Qualche altra pellicola di transizione, quindi la definitiva esplosione. Fatale l’incontro con Barry Levinson, forse il regista che meglio ha saputo mettere in luce la doppia – o comunque multipla – anima del talentuoso Robin. Good Morning, Vietnam (1987), in cui Williams veste i panni di Adrian Cronauer un dj radiofonico anticonformista in servizio in Vietnam durante il dissennato e tristissimo conflitto che condusse per mano alla morte una moltitudine di giovani americani, è uno dei più straordinari assoli cinematografici che la Storia ricordi, di molto superiore alle qualità intrinseche del film stesso. Ed il merito principale della regia fu proprio quello di mettersi completamente al servizio di tale fenomeno, del quale Levinson intravide finalmente con chiarezza una portata che andava oltre la semplice interpretazione, sfociando direttamente nella pura Arte.
Robin Williams comincia così a diventare attore di culto, come ben testimonia il folgorante cameo nel rutilante Le avventure del barone di Munchausen (1988) di Terry Gilliam. Dal culto al mito generazionale il passo è breve. E Williams lo compie impersonando il professor John Keating nel celeberrimo L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir. Un’opera la cui universalità del messaggio – carpe diem: vivi la vita attimo per attimo secondo i tuoi desideri, poiché non dura in eterno – è anche la chiave del suo successo. A questa semplicità Williams si adegua meravigliosamente: la sua performance sottotraccia si insinua nel cuore degli spettatori in modo spontaneo e diretto, quasi senza i filtri di una profonda riflessione sulla ottusità delle regole alto-borghesi che pure il film stimola. A tutt’oggi John Keating – in larga misura per merito dell’interpretazione di Williams – rimane uno dei più fulgidi esempi di “vincitori morali” sconfitti dalle spietate regole della vita, trascendendo in parecchi modi la propria dimensione cinematografica. Tristissimo constatare come l’esistenza stessa si prenda oggi la rivincita, nel capitolo finale della vita di Robin Williams. La quale carriera, nonostante l’assurdo (ma non poi tanto, a pensarci bene…) mancato riconoscimento agli Oscar per L’attimo fuggente, è ormai ampiamente decollata. Altri indimenticabili ritratti si susseguono senza sosta, paradigma professionale e non di un uomo che sentiva l’assoluto bisogno di vivere la propria esistenza al pari di un disco in vinile a 78 giri. Il venditore d’auto e donnaiolo impenitente di Cadillac Man (1990) diretto da Roger Donaldson, in cui si passa il tempo a chiedersi come diavolo faccia il generosissimo Williams a non avere un infarto, tanto è concitato nella recitazione di questa versione comedy di Un pomeriggio di un giorno da cani. Poi il folle utopista de La leggenda del re pescatore (1991), ancora per la regia di un Terry Gilliam dal carattere evidentemente assai affine a Robin. E ancora quello che sarebbe potuto diventare il ruolo della carriera, un Peter Pan adulto-ma-eterno-bambino che pareva essergli cucito addosso dalla nascita. Peccato che, come suggerisce il titolo del film di Steven Spielberg Hook – Capitan Uncino (1991), i riflettori narrativi fossero puntati in misura maggiore sul personaggio impersonato da Dustin Hoffman. Dalla parziale delusione per un classico mancato alla eccezionalità di un capolavoro in larga parte incompreso. Sarà ancora Barry Levinson con Toys – Giocattoli (1992) a dirigerlo nell’opera più dadaista (e “puramente” antimilitarista) mai prodotta da Hollywood. Il risultato fu un flop commerciale di proporzioni colossali, ma per Robin Williams il vero ruolo dell’adulto capace di conservare forever l’incanto di uno sguardo infantile è proprio questo.
Segue, per tutti gli anni novanta, una lunga altalena tra prodotti per famiglie e opere autoriali. Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus rappresenta con tutta probabilità lo zenit ineguagliato delle capacità trasformistiche di Robin Williams, qui nelle vesti  – in larga parte femminili – di un papà separato che si finge governante per riconquistare i propri figli, trionfando al botteghino. Nel curriculum del nostro entrano intanto una serie di autori da sottolineare in rosso e dei quali vantarsi di averci lavorato assieme: il Francis Ford Coppola dell’irrisolto ma interessante Jack (1996), il titanico Kenneth Branagh di Hamlet (1996) ed il Woody Allen ancora sufficientemente brillante – nonché sanamente volgare – di Henry a pezzi (1997). Nello stesso anno, con il moderatamente impegnato Will Hunting – Genio ribelle di Gus Van Sant arriva il suo unico premio Oscar come attore non protagonista, in scandaloso ritardo di qualche anno sulla tabella di marcia.
Agli inizi del nuovo millennio un cambio di registro che rende perplessi i fans ma che testimonia, una volta di più, il suo coraggio d’attore, la sua inesauribile voglia di mettersi alla prova. Robin Williams diventa “cattivo”, per allontanarsi da quell’immagine banalmente familista che nella mecca del cinema stanno provando a ritagliargli sopra. Stratificato e problematico in One Our Photo (2001) del cerebrale e meditativo Mark Romanek; poi l’ulteriore balzo in avanti, un autentico villain serial killer di ragazzine in Insomnia (2002) del grande Christopher Nolan. Pur in un ruolo minore, Robin Williams tiene ampiamente il passo artistico del protagonista del film, un tormentato Al Pacino detective impegnato nella duplice missione di sconfiggere i propri sensi di colpa e risolvere il caso degli omicidi plurimi. Williams, nei panni del maniaco Walter Finch, sorprende tutti, forse anche se stesso. A posteriori quello di Insomnia risulta purtroppo l’ultimo guizzo di un funambolo che pareva imprendibile. Nemmeno la terza collaborazione con Barry Levinson – L’uomo dell’anno (2006), satira politica sulla sorprendente ascesa alla Casa Bianca di un comico (odor di autobiografia?) godibile ma non troppo graffiante – si lascia ricordare per risultati particolarmente eccelsi. Il tempo inevitabilmente scorre e la parabola discendente è ormai imboccata. In assenza di ruoli diversificati e di un qualche spessore, Robin Williams diviene per il cinema ciò che lui stesso ha forse sempre temuto, ovvero una sorta di santino da esibire a bambini ed adulti che si recano in sala. Il più delle volte insieme, ed è questo il grosso problema. Nel 2013, con la serie televisiva The Crazy Ones, Williams tenta un ritorno alle origini a trent’anni di distanza da Mork e Mindy, ma il serial viene cancellato dalla CBS dopo una sola stagione. Il panorama televisivo statunitense, proprio perché eccezionalmente stimolante, non fa prigionieri. E tantomeno nutre rispetto per i Miti. Forse è il colpo di grazia.
Al momento di scrivere queste righe pare confermata l’ipotesi del suicidio di Robin Williams, affetto da una grave forma di depressione. Noi di CineClandestino preferiamo ricordarlo come un amico che è partito per una lunga vacanza, cercando di ritemprarsi dalle tante problematiche della vita. Ben consapevoli che davanti ad ognuno di noi c’è sempre un simbolico banco scolastico sopra il quale salire per riaffermare – o magari farlo per la prima volta – la nostra identità. A qualsiasi età e finché il tempo ce lo permette.

Daniele De Angelis

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