Noi credevamo
«I giovani cubani non hanno né un passato glorioso da rievocare, né possono immaginarsi un futuro. Per questo molti di loro sognano di cercare fortuna all’estero». Vogliamo partire da queste parole di Laurent Cantet per parlarvi di Ritorno a L’Avana (in originale Retour à Itaque), l’ultima pellicola del regista francese, presentata e premiata alle Giornate degli Autori veneziane 2014.
Se pensiamo ai giovani in senso globale, forse nella memoria storica passati gloriosi da rievocare ci sono, ma non come generazione contemporanea, caratterizzata dal forte senso di precarietà, dall’idea di doversi conquistare un presente ancor prima che un futuro, quest’ultimo visto sempre più come un miraggio.
Questo è uno dei punti che rende il lungometraggio di Cantet vicino alla sensibilità di ognuno di noi nonostante la storia particolare abbia come protagonisti cinque amici cubani che si ritrovano, a distanza di anni, per “festeggiare” il ritorno a casa di uno di loro, Armando (Néstor Jiménez), “fuggito” a Madrid sedici anni prima. Sulla carta potrebbe apparirci così lontano quell’humus, la militanza nello zeitgeist sociale del paese, il cosiddetto “periodo speciale” proclamato da Fidel Castro nel ’92, eppure i punti di contatto ci sono. I nostri padri han fatto le loro rivoluzioni, il cosiddetto ’68 – e certo, per carità, non stiamo paragonando i diversi governi politici, sono emigrati in cerca di un futuro migliore, eppure oggi sia i padri che i figli si chiedono cosa gli uni abbiano lasciato agli altri. Cantet ci pone di fronte a questo loro interrogarsi, a posteriori, dopo che quel «noi credevamo davvero» è stato annientato (ma un barlume, in uno di loro resta).
La struttura del film richiama molto un impianto teatrale sia dal punto di vista dell’unità spazio-temporale che nella costruzione dei dialoghi e, in effetti, a emergere sono soprattutto le interpretazioni dei nostri protagonisti. Se da un lato l’estraneità del regista, di origini francesi, permette la giusta distanza della macchina da presa, dall’altro il fatto che gli attori siano cubani ha conferito ancora più credibilità alle parole scritte da Cantet in coppia con Leonardo Padura, il quale ben conosce quella realtà. Rispetto a La classe (2008) in cui il cineasta lavorava in sottrazione e sul sottinteso, qui le emozioni sgorgano, l’obiettivo cinematografico fa la radiografia dei sentimenti persino nei silenzi, segue i gesti di affetto, ma anche di rabbia.
Anche se nei primi fotogrammi gli amici ballano sulla terrazza che domina i tetti, lo spettatore percepisce che qualcosa di irrisolto c’è tra di loro e anche nel passaggio di testimone da una generazione all’altra. «Attraverso Amadeo, Rafa (Fernando Hechevarría), Tanía (Isabel Santos), Aldo (Pedro Julio Díaz Ferrán) e le esperienze di Eddy (Jorge Perugoría), il film tenta di trovare il sangue, il sudore e le lacrime di un’esperienza collettiva che è stata unica» afferma L. Padura. In quella sera-notte accade la resa dei conti con se stessi e con gli altri; la città e la storia di Cuba irrompono mentre esplodono l’irrequietezza o la tenerezza sulle note di “I will survive”.
Purtroppo qualche calo di ritmo c’è e non possiamo non rilevarlo, ma Ritorno a L’Avana ci avvicina alle storie di quegli uomini grazie alla delicata mano di Cantet e a un cast che riesce a farci immedesimare al di là dell’età che ogni spettatore può avere. Il regista di Risorse umane (1999) ci ha abituati alla sua esplorazione di microcosmi in cui indagare e anche qui, nello spazio circoscritto della terrazza (pronto ad assumere una valenza metaforica), dove sembra che non ci sia più speranza, la macchina da presa cerca delle aperture…
Forse i nostri protagonisti, alla fine della partita, sanno cosa ne sarà di loro; ma la generazione successiva?
Maria Lucia Tangorra