Woody Allen rifà Woody Allen… in Spagna
Nel recente passato di Woody Allen le principali notizie che lo riguardavano non erano inerenti al prossimo film in uscita, che per tradizione ha cadenza annuale, ma sulle vicissitudini legali tra lui e gli Amazon Studios, terminate con la recessione del contratto dopo la mancata distribuzione – negli Stati Uniti – di Un giorno di pioggia a New York, e le beghe giudiziarie che continuano, da quasi trent’anni, a infierire nella sua vita privata. Due fatti che sembravano dover far terminare repentinamente e malamente la prolifica e apprezzata carriera del regista newyorkese. Invece Allen, senza farsi schiacciare da queste avversità, è riuscito a partorire un’altra sua pellicola, senza quasi perdere il suo aplomb registico/umorale. Anche se quanto gli è accaduto potrebbe essere ottima materia per più storie narrate alla sua maniera, Rifkin’s Festival (2020), opera post tempesta, va in tutt’altra direzione, sebbene almeno in un punto confermi che sia stata dettata dall’increscioso contenzioso con gli Amazon Studios.
Woody Allen con Rifkin’s Festival, suo 48º lungometraggio, riparte – accumulandole – dalle tematiche più personali, già sviscerate comicamente e/o seriamente in svariate sue pellicole passate, ma deve farlo fuori dagli Stati Uniti, essendo stato in pratica bandito, per i fatti accennati poco sopra. Allen accetta i finanziamenti che gli vengono dalla Spagna e dall’Italia, e per tanto ambienta per convenienza la sua storia al Festival di San Sebastián, nei Paesi Baschi. Se in Vicky Cristina Barcellona, primo film girato da lui in Spagna, il folklore locale era necessario per la trama, in questo caso lo sfondo spagnolo è solamente una necessità produttiva, e Allen non nasconde completamente questa “marchetta”. Eppure l’ambientazione al festival, anche se non è quella lussureggiante di Cannes o Venezia, gli consente di lanciare le sue acuminate ironie su quest’universo artificioso nelle scenografie e pieno d’ipocrisia dalla fauna che ci vivacchia, come confermano le prime sequenze della pellicola. Ma il festival è solamente l’occasione per raccontare il suo tema prediletto, ossia i dubbi esistenziali e le sfortune di un mediocre schlemiel ebreo-newyorkese nella vita quotidiana. Rifkin è una tenue variante delle differenti figure incontrate in precedenti pellicole alleniane, tipo Boris Grushenko di Amore e guerra (1975), Alvin Singer di Io e Annie (1977) oppure il Danny Rose in Broadway Danny Rose (1984). In questo caso Allen delega il personaggio alter-ego a Wallace Shaw, attore già apparso, in ruoli secondari, in alcune pellicole del regista. Scelta azzeccata, perché Shaw riesce a donare a Rifkin una forma più compassata e meno “nevrotica”, e farlo sembrare un personaggio più veritiero, in bilico tra malinconico e buffonesco, rispetto all’incarnazione che ne avrebbe dato Allen (senza togliere nulla alle sue indimenticabili performance). Rifkin, in questo sospeso mondo festivaliero, e con una palpabile crisi matrimoniale con la sua giovane compagna che passa più tempo con un giovane e affascinante regista (idea recuperata da Un giorno di pioggia a New York), rievoca il suo passato, come già accadeva in modo surreale ad Alvin Singer o in modo tragico a Judah Rosenthal (Martin Landau) in Crimini e misfatti (1989). Tutte visioni che gli si presentano prepotentemente filtrate cinematograficamente, citando alcune pellicole amate dallo stesso Allen (nell’ordine: Quarto potere, 8 e ½, Jules et Jim, Fino all’ultimo respiro, Un uomo e una donna, Persona, Il posto delle fragole, L’angelo sterminatore e Il settimo sigillo). Rifkin’s Festival, sperando che non sia l’ultima opera dell’ultra-ottantenne Allen, se da un lato conferma le sue raffinate qualità registiche e il suo acume di dialoghista, dall’altro realizza solamente una manieristica, sebbene piacevole, variazione di quanto avesse già raccontato. Si possono decantare differenti elementi che compongono e sostengono il film, come l’elegante fotografia di Vittorio Storaro, l’ottima direzione d’attori e molte fulminanti battute, o anche alcune citazioni cinefile (anche se Allen ha abbondato), però in Rifkin’s Festival manca l’anima, quello sfolgorio presente nelle sue opere classiche.
Roberto Baldassarre