Ricominciare a vivere
Il surf è un’attività ludica e, finanche, agonistica molto “cool”, che affonda le sue radici nelle Hawaii primitive, quando i polinesiani gongolavano quando cavalcavano le onde sopra grezze tavole da surf (questa immagine ci venne tramandata da James Cook, scopritore delle Hawaii). Dai prossimi giochi olimpici, che si svolgeranno a Tokyo nel 2020, il surf sarà inserito come nuova competizione agonistica. In ambito cinematografico, il surf e i surfisti hanno un loro particolare spazio, ma non si può parlare prettamente di (sotto)genere, però l’argomento ha figliato una discreta filmografia. Sarebbe interessante, però divagante, stilare una lista con tutte le pellicole che hanno trattato il surf, ma comunque meritano una menzione particolare alcune pellicole che hanno omaggiato quest’affascinante attività che, se eseguita con profonda dedizione, si trasforma in uno stile di vita. La prima opera che viene alla mente è, inevitabilmente, Big Wednesday (Un mercoledì da leoni, 1978) di John Milius, struggente ed epico racconto di tre amici. C’è poi l’action Point Break (Point Break – Punto di rottura, 1991) di Kathryn Bigelow, in cui il poliziotto protagonista – infiltrato – scopre e ama lo stile filosofico di vita dei surfisti ladri di banche. Nel medesimo anno, Takeshi Kitano ha realizzato Ano natsu ichiban shizukana umi (Il silenzio del mare, 1991), atto d’amore poetico verso il mare, in cui il protagonista, attraverso la tavola, può “lievitare” sul quel dolce mondo silenzioso e incontaminato. Infine, merita una menzione anche il documentario Dogtown and Z-Boys (2005) di Catherine Hardwicke che, sebbene incentrato sul mondo degli skateboard, mostra come alcuni ragazzi degli anni Settanta hanno tratto ispirazione dai surfisti per le loro evoluzioni sulle tavole con quattro ruote.
Kimi to, nami ni noretara, che tradotto letteralmente significa “Se cavalchi le onde”, è incentrato sul surf, ma ben presto si sposta verso un altro tema, e il surfismo diviene una metafora della vita. Il regista Masaaki Yuasa ha definito questo suo coloratissimo anime come una “semplice commedia romantica”, ma Ride Your Wave (questo il titolo internazionale) è anche e soprattutto un romanzo – d’animazione – di formazione, in cui la giovane protagonista Hinako deve accostarsi alla vita adulta e “scontrarsi” con la medesima. Le onde assumono il chiaro significato metaforico delle increspature (sinonimo di problemi), grandi o piccole che siano, che possono occorrere nella vita, e che bisogna avere il coraggio di cavalcarle per non soccombere. Dopotutto, il surfista è un equilibrista che sulla sua tavola deve saper mantenere la sua stabilità, domare in un certo qual modo l’onda e tornare a terra sapendo di aver “sconfitto” il movimentato flusso. L’insegnamento di questo concetto gli viene dallo spirito di Minato, il suo fidanzato morto tragicamente mentre salvava una persona in mare. Lo spirito di Minato, che si palesa come guida “fluida” di Hinako e che la sprona ad affrontare una nuova vita (tornare a cavalcare le onde), rievoca molto il classico A Guy Named Joe (Joe il pilota, 1943) di Victor Fleming, e non sarebbe peregrino pensare che la sceneggiatrice Reiko Oshida abbia attinto da quella pellicola. Il concetto di “ricominciare” è anche sottolineato dalla canzone leitmotiv “Brand New Story” (storia nuova di zecca) del gruppo giapponese Generations from Exile Tribe, che Hinako canta ogni volta che vuole far apparire Minato. Ride Your Wave, presentato al festival #Cineuropa33, da ogni singola scena sprizza i tipici umori giapponesi, ondeggiando tra romanticismo a volte troppo spinto e ironia demenziale. Lodevole nella tematica, peccato che si tratti di una forma d’animazione non per tutti i gusti.
Roberto Baldassarre