Scene madri
«Mo’ te l’aggio mise ‘mbocca, ‘a prossima t’ho metto…»
Gennaro La Monica all’esattore del pizzo
Nel lontano 1998 destò immenso sbalordimento come in Campania la piccola pellicola regionale Annaré di Ninì Grassia avesse battuto in un sol colpo gli incassi dei kolossal americani Titanic (1997) di James Cameron e The Man in the Iron Mask (La maschera di ferro, 1998) di Randall Wallace. Precisamente, Annaré è vero che aveva sconfitto le due pellicole aventi protagonista Leonardo di Caprio, ma il lauto introito (27 milioni di lire, cioè il doppio della media d’incasso delle due pellicole yankee) era in riferimento solo al primo weekend di programmazione. Su cotanto abbrivio, la pellicola partenopea venne anche distribuita in tutta Italia, riuscendo alla fine a incassare intorno a 500 milioni di lire. Guardando attentamente, dopo oltre vent’anni, questo exploit, benché fosse stato qualcosa di oggettivamente sorprendente (Titanic in quel biennio era imbattibile a livello mondiale) non c’è da sorprendersi molto, perché la minuta e gracile pellicola di Ninì Grassia era cucita intorno al giovane Gigi D’Alessio, che proprio in quell’ultimo scorcio di secolo stava assurgendo nell’olimpo dei più grandi cantanti neomelodici. Inoltre, non c’è nemmeno da stupirsi molto, perché Annaré rientra perfettamente in quel proficuo genere denominato sceneggiata (napoletana), che sempre ha fatto breccia nel cuore degli spettatori partenopei.
Genere sorto alla fine della prima guerra mondiale, la sceneggiata rispecchia esattamente l’anima dei partenopei e il loro folklore, fondendo quella musicalità che aleggia nelle città con la mestizia insita nel cuore di un popolo assoggettato, senza dimenticare la spiccata indole autoironica e crassa. Lo sceneggiato, che fosse teatrale o cinematografico, s’intesseva sempre intorno ad una canzone melodica di successo, sovente con protagonista il medesimo cantante. Genere non solamente apprezzato nella propria patria, ma anche e soprattutto amato in terre lontane, da quei migranti che così potevano riassaporare nuovamente il folklore del loro remoto paese. Se Annaré è stata la sceneggiata cinematografica – 2.0 – che ha riscosso maggior successo, suscitando interesse anche a livello nazionale, i migliori fulgidi esempi, però, andrebbero ricercati tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando tale genere era sorretto dal poderoso cantante Mario Merola. Denominato il “Jean Gabin di Porta Capuana”, Merola è quello che ha incarnato al meglio il tipico napoletano verace, spavaldo e orgoglioso nel carattere, ma umile, onesto e leale nel rapportarsi con la vita. Benché fossero pellicole mediocri nella confezione, erano perfette macchine di commozione e divertimento, sempre sorrette dalla canzone su cui si basava la trama. Certamente Zappatore (1980) di Alfonso Brescia è la sceneggiata migliore tra quelle interpretate dal cantante partenopeo, ma del “lotto meroliano” è molto più interessante e intrigante Tradimento (1982), essendo uno degli ultimi fuochi del “Jean Gabin di Porta Capuana”. Pellicola sempre realizzata dal versatile regista romano Alfonso Brescia (in totale ha diretto Merola dodici volte, tra melodrammi e poliziotteschi), questa sceneggiata è satolla di tutti quei tipici trucchi del genere, spinti talmente al massimo da comporre una vicenda fitta di scene madri kitsch.
Seppure Tradimento sia cucito perfettamente intorno al personaggio Merola – anche qui umile e onesto personaggio avversato dai fatti della vita, e benché questo sempre con una filosofica canzone in gola da cantare –, questa pellicola segna anche l’inevitabile passaggio di testimone cine-canoro tra lui e il giovane Nino D’Angelo, che l’anno precedente aveva esordito con lo struggente (e semi-autobiografico) Celebrità (1981) di Ninì Grassia. Tale cambio ha già i connotati definiti, perché parallelamente alla tragica vicenda del venditore di brodo di polpo Gennaro La Monica, scorre la frizzante e melensa storia d’amore tra i due giovani Nino Esposito e Rosalia, che è interpretata da Roberta Olivieri, perenne “Giulietta” nelle future pellicole con protagonista il caschetto biondo. Oltre al fatto che D’Angelo, dentro questo fortino meroliano, riesce a cantare due sue proprie canzoni – inevitabilmente – d’amore. Intorno a questi due esponenti generazionali della canzone neomelodica, vi ruotano anche due acclamate stelle dello spettacolo partenopeo, che danno lustro recitativo al melodramma: Ida di Benedetto, come la bella moglie considerata la “malafemmena”, e Regina Bianchi, nel ruolo della devota madre. Inoltre, per dare maggior colore al folklore di questa sceneggiata, in piccoli ruoli ci sono alcuni notissimi caratteristi del cinemabis, che ricoprono i ruoli comici: il napoletano Antonio Allocca (maggiormente noto come Prof. nel telefilm I ragazzi della 3ª C), il barese Gianni Ciardo e il salentino Lucio Montanaro. Il romano Nello Pazzafini, dal volto truce, è il boss camorrista, personaggio cattivo che così rappresenta uno dei peggiori mali che affligge la città. Ma a lato di questi volti/personaggi, c’è anche la bizzarra partecipazione del comico fiorentino Ghigo Masino nel ruolo del faceto giudice, che commenta il processo con blande battute comiche. Tutti questi svariati elementi (canzoni, drammi, amori, camorrie, facce, frizzi e lazzi) vanno a formare la bizzarria di Tradimento e le sue differenti scene madri. Il pre-finale al monastero di Montevergine, in cui c’è la catarsi finale, è epico, ma ancor più memorabile è il sogno/incubo di Gennaro La Monica, che s’immagina di essere un povero Pulcinella a processo dentro il teatrino delle marionette assieme alla moglie e al giudice. In questa bizzarra visione, che vorrebbe essere seria, difficilmente si può non ridere, anche perché Merola impersona uno dei peggiori Pulcinella cinematografici di sempre. Questo si un vero tradimento!
Roberto Baldassarre