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(Re)Visioni Clandestine #23: Totò, Peppino e i fuorilegge

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Squadra che vince non si cambia

«Ai postumi l’ardua sentenza»
(Totò in Rita, la figlia americana)

Il menzionato proverbio è perfetto per descrivere rapidamente il vero senso di questa pellicola, in cui i due attori napoletani, nuovamente in coppia e per la seconda volta con i nomi congiunti nel titolo, vengono lanciati in un’altra scombinata avventura. Il precedente Totò, Peppino e la… malafemmina, linciato dalla critica del tempo e poi rivalutato, venne distribuito nell’agosto del 1956, mentre Totò, Peppino e i fuorilegge uscì nel dicembre del medesimo anno. In pratica una pellicola cotta e mangiata, che inizialmente doveva intitolarsi Totò a peso d’oro, ma i quattro miliardi d’incasso della precedente pellicola hanno fatto capire che era fondamentale recuperare parte del titolo vincente. L’imitazione, però, non si limitava solo a questo sotterfugio distributivo, ma ricopiava anche parte della formula dell’illustre antesignano: parte del cast di contorno venne riconfermato, alcune scene comiche rievocavano le originali, e fu mantenuto Camillo Mastrocinque alla regia, essendo economico, rapido nell’esecuzione e affidabile nel rispettare gli impegni.

Totò, Peppino e i fuorilegge, com’era di consuetudine nelle pellicole con il Principe De Curtis, poggia tutto sui frizzi e i lazzi dell’attore partenopeo, e in prodotti come questa pellicola, arricchiti dall’altra frizzante verve comica di De Filippo. Sfortunatamente il miracolo comico, e soprattutto narrativo, riuscito con Totò, Peppino e la… malafemmina qui non avviene. Il tasto dolente è proprio la sceneggiatura, che relegando il grosso del lavoro al duo comico, in pratica imbastisce una variante della precedente pellicola, con in aggiunta una trovata presa da Sons of the Desert (I figli del deserto, 1933) di William A. Seiter e con Stan Laurel e Oliver Hardy. Spulciando la pellicola, le seguenti sequenze sono copie della “Malafemmina”: il paesano Totò che vuole vivere in modo più decente e non afflitto dall’avarizia della casa in cui vive; la composizione a due della lettera; la notte dispendiosa al tabarin con le ballerine; l’intermezzo canoro di Teddy Reno. Di queste idee risuolate, quello che cambia è che la tirchieria in famiglia non è più rappresentata dal fratello (che era interpretato da Peppino De Filippo), ma dalla consorte (Titina de Filippo, in ottima forma comica), e che Teddy Reno fa solo un cameo, giusto in tempo per lanciare un nuovo successo musicale. Dal film di Stanlio e Ollio, invece, gli sceneggiatori riutilizzano l’idea del filmato che incastra Antonio e Peppino nel mezzo del baccanale al tabarin, che sbugiarderà successivamente la menzogna del protagonista verso la consorte. A queste pallide duplicazioni vanno aggiunte anche le inutili scene amorose tra la saggia Valeria (Dorian Gray) e il seduttore Alberto (Franco Interlenghi), che in un certo qual modo ricalcano – al contrario – la liaison tra il serio Gianni (Teddy Reno) e la vamp Marisa Florian (Dorian Gray). Tolte queste imitazioni, ci sono alcune scene comiche molto gustose. Ad esempio, quando Antonio torna a casa e affronta l’interrogatorio della moglie Teresa (che sa della sua scappatella) mentre la figlia Valeria, gesticolando dietro la madre, cerca di far capire al padre che la madre sa già tutto della messinscena. Tale gag, consolidato numero del varietà d’antan, sarà poi ripresa con maggiore comicità da Lino Banfi in Vieni avanti cretino (1982) di Luciano Salce. Il vero divertimento spassoso, però, sorge alla fine, quando Totò è prigioniero del fuorilegge Lo Torchio e la sua banda. Spalleggiato dai caratteristi Memmo Carotenuto e Mario Castellani, Totò ritrova quella vena demenziale presente in molte sue pellicole degli anni Quaranta, come dimostrano, ad esempio, le gags del pranzetto per farlo ingrassare (da qui il titolo primigenio); quella dei fuorilegge che cercano di indovinare la carta pescata dal mazzo di Totò, oppure della ridicola intervista al fuorilegge Ignazio “Il torchio”. Detto ciò, Totò, Peppino e i fuorilegge, escludendo i fans sfegatati del Principe De Curtis, non merita una rivalutazione totale come l’antecedente pellicola (nemmeno lasciando l’ardua sentenza ai futuri postumi, come auspicava il Principe), però sono queste perle finali che confermano la grandezza comica di Totò e che fanno capire come moltissime trame che gli furono cucite addosso – troppo velocemente – erano di stoffa vecchia o riciclata.

Roberto Baldassarre

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