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Retour à Forbach

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VOTO: 6

Diario di un ritorno

“Partire è un po’ come morire”, recita un antico detto popolare. Per Régis Sauder, regista di Retour à Forbach, al contrario, la partenza dalla sua città natale, Forbach appunto, antica cittadina mineraria della Mosella Est, situata nel bacino carbonifero della Lorena, al confine con la Germania, è stata una scialuppa di salvataggio e un motivo di rinascita. Oggi il cineasta francese vive e lavora in quel di Marsiglia, ma come spesso accade il passato torna a bussare alla porta, quanto basta per spingerlo trent’anni dopo a fare ritorno in quella terra dalla quale aveva deciso di scappare per opporsi alla violenza e alla vergogna del suo ambiente.
Presentato in prima mondiale alla 39esima edizione del festival Cinéma du Réel e di recente nella competizione della sezione “Visti da vicino” del 36esimo Bergamo Film Meeting, il documentario è al tempo stesso un viaggio intimo, storico, geografico, sociale e politico, che il cineasta affronta per fare i conti con se stesso e con i fantasmi che non lo hanno mai abbandonato (è lo stesso regista a ribadirlo in voice over: “Ho lasciato Forbach più di trent’anni fa, a differenza di Forbach che invece non mi ha mai lasciato”). Un viaggio, quello intrapreso dal regista e narratore, spinto da una necessità epidermica, quanto necessaria, di capire perché quel passato continua a tornare a galla e a tormentarlo, ma anche per ritrovare ciò che anni fa si è lasciato alle spalle con tanto dolore e moltissima delusione. Ne viene fuori un flusso di immagini e parole che si alimenta attraverso ricordi, ritorni nei luoghi e incontri con coloro che al contrario di lui hanno deciso di restare. Partendo dalla villetta dove ha vissuto la sua infanzia, Sauder mostra l’abbandono generale in cui versa la città e ancora di più i quartieri ghetto in cui nel corso del tempo sono stati relegati gli immigrati. Un’occasione per parlare sotto voce di temi caldi come l’immigrazione e delle ragioni del preoccupante successo elettorale che incontra da quelle parti l’estrema destra. In questo modo la memoria personale va a convogliare in quella collettiva, restituendo un mosaico di diapositive di ieri e di oggi.
Un tour fisico ed emozionale che il cineasta ci chiede di fare al suo seguito, ma che a conti fatti lo spettatore vivrà in maniera assolutamente passiva, da testimone e nient’altro di più. Forse un maggiore coinvolgimento del fruitore da parte del traghettatore avrebbe reso la visione più partecipe e catartica di quanto invece lo sia. Quante volte, infatti, ci è capitato di tornare in luoghi che in un modo o nell’altro hanno segnato le nostre esistenze. Fare leva su questo aspetto avrebbe garantito all’opera qualcosa in più, o meglio un motivo d’interesse maggiore rispetto a quello che il regista ci propone. In tal senso, dei motivi personali che lo hanno spinto a tornare a Forbach può interessarci fino a un certo punto, mentre il provare a riflettere con lui sulla storia e sulla politica attuale, utilizzando la sua città di origine come specchio riflettente della condizione odierna, per quanto ci riguarda avrebbe garantito al documentario un fattore in più di coinvolgimento. L’aspetto personale, nonostante il cineasta ribalzi continuamente dalla sfera intima a quella pubblica, tende a prendere il sopravvento, ma di questo ci rendiamo conto perfettamente data la natura dell’operazione che c’è dietro il tutto. Un maggiore equilibrio tra le due sfere, per quanto ci riguarda, avrebbe però messo nelle condizione colui che guarda di vivere con più complicità e interesse il racconto. Régis Sauder, invece, se lo trascina dietro, sollecitandolo e chiamandolo in causa solo in pochissime circostanze.
Retour à Forbach è sì un diario di viaggio che parte da un punto di vista soggettivo ed esperenziale, ma colui che ne scrive e ne ha scritto le pagine non deve mai dimenticare che, una volta estratto dal cassetto e reso pubblico, da pochi o da tanti verrà prima o poi letto. Il fatto che il regista francese abbia trascurato per gran parte della timeline a disposizione tale aspetto, per quanto ci riguarda rappresenta un limite. Magari per molti non lo sarà, ma per noi si e per questo abbiamo deciso di non attribuire all’opera di Régis una sufficienza striminzita. Un limite, quello evidenziato, che al contrario non si palesa in un’operazione analoga come quella firmata dal collega Mike Hoolboom, dal titolo Incident Reports.

Francesco Del Grosso

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