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Ray Liotta, l’essenza del Cinema

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Un volto da film

Ci sono divi che, ad ogni film girato, aumentano in modo esponenziale la propria iconicità. Poi ci sono gli attori di razza. Coloro i quali, anche in ruoli relativamente marginali, riescono a lasciare un’impronta indelebile nella Settima Arte. Ray Liotta, scomparso improvvisamente a sessantasette anni di età, apparteneva senza dubbio a questa seconda categoria.
Nativo del New Jersey, con un cognome adottivo ad evocare origini italiane, Ray Liotta è stato un volto fondamentale del magnifico cinema statunitense vissuto a cavallo degli anni Ottanta e dei Novanta. Non abbiamo usato la parola volto a caso. Lui era un volto. Caratteristico. Difficile da dimenticare. Bello senza essere efebico o ammaliante. Ma soprattutto dotato di un’ambiguità di fondo che gli ha permesso di dare vita a personaggi molto diversi da ciò che potevano apparire ad un primo sguardo. E dunque capaci di attirare l’attenzione dello spettatore. Anzi, di fagocitarla in pochissime inquadrature. Il primo ad accorgersene, dopo tanta carriera televisiva, fu quel genio di Jonathan Demme, il quale lo scelse come antagonista della coppia di protagonisti nel fondamentale Qualcosa di travolgente (Something Wild, 1986), opera-manifesto dell’intera decade. Un lungometraggio “di ricerca” in perenne bilico tra commedia, declinata in ogni suo aspetto, e tragedia più assoluta. Del quale Liotta riassume alla perfezione una tendenza double-face dal sapore quasi filosofico. Un’autentica epifania recitativa, con relativi riconoscimenti della critica in arrivo.
Segue un’altra superba performance attoriale, a testimoniarne ulteriormente il valore. Stavolta priva di chiaroscuri, per un personaggio complesso ma cristallino. Ci riferiamo al sottovalutato Nick e Gino (Dominick and Eugene, 1988) di Robert M. Young, in cui Liotta interpreta il fratello sano del diversamente abile Tom Hulce. L’anno seguente il piccolo ma incisivo ruolo nel commovente L’uomo dei sogni (Field of Dreams, 1989) di Phil Alden Robinson. Lui è il più celebre dei giocatori tornati dall’Aldilà per riassaporare il gusto del campo da baseball, per un inno alla vita ed ai valori dello sport più popolare in America.
Un curriculum già piuttosto ricco che permette a Liotta il balzo nell’università del Cinema. Cosa che avviene grazie a sua maestà Martin Scorsese, che gli affida il ruolo da protagonista in Quei bravi ragazzi (Good Fellas, 1990), apogeo del mafia-movie nonché del velleitario sogno americano secondo il maestro italo-statunitense. Henry Hill – questo il nome del personaggio cui da vita Liotta – rappresenta il classico “uomo qualunque” desideroso di scalare tutti i gradini del potere nel più breve tempo possibile. E Ray Liotta, attorniato da mostri sacri del calibro di Robert De Niro, Joe Pesci e Paul Sorvino, non si limita affatto a reggere il confronto, ma guida il pubblico attraverso un inferno senza ritorno dagli echi shakespeariani.
Fuor di metafora, dopo la vertiginosa ascesa culminata in Quei bravi ragazzi, anche la carriera di Liotta imbocca una leggera parabola discendente, confinandosi in ruoli di contorno pur sempre significativi. Cop Land (1997) di James Mangold, Le due verità – Forever Mine (1999) di Paul Schrader e Blow (2001) di Ted Demme sono ottimi film, nobilitati da regie e cast di rilievo. Anche la partecipazione al controverso Hannibal (2001) di Ridley Scott resta ben impressa nella memoria, anche a causa di una morte in perfetto stile Lecter.
A posteriori Ray Liotta avrebbe facilmente potuto finire imprigionato in ruoli predefiniti, cioè lo psicopatico di turno dallo sguardo spiritato. Così non è stato. Per esclusivo merito del suo talento di attore, che gli ha permesso di spaziare attraverso tutti i generi conoscibili, anche in produzioni di nobiltà discutibile.
Ci piace ricordarlo con un ultimo titolo, il capolavoro misconosciuto rispondente al titolo di Cogan – Killing Them Softly (2012) di Andrew Dominik, impeccabile ed implacabile ritratto criminale, con sovrapposizione politica, di un America contemporanea ormai priva di qualsivoglia senso etico. E Liotta, in un cast meraviglioso, polarizza l’attenzione nei panni di una pedina altamente sacrificabile nel sacro nome della legge della giungla criminosa. La tragica fine di un piccolo uomo nella finzione, va a coincidere simbolicamente con la morte di un grande e strepitoso attore.

Daniele De Angelis

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